È una costante di molti grandi registi, quella di ammettere ad un certo punto della propria vita “ho sempre fatto lo stesso film”. In Italia, lo hanno detto Fellini, Monicelli, Brass, Wertmüller, recentemente Sorrentino. Eppure stupisce ancora la critica e il pubblico appassionato l’espressa ostinazione con cui Hirokazu Kore’eda continua a esplorare un singolo tema, risolvendolo sempre alla stessa maniera: i legami familiari non sono necessariamente legami di sangue. Quasi sembra che ci prenda in giro quando in una scena di Broker – Le buone stelle, il suo ultimo film, Sang-hyeon si sveglia, guarda i suoi compagni e dice “ho sognato che eravamo una famiglia”. Ci si poteva aspettare qualcosa di nuovo, da Broker: è il primo film di Kore’eda girato in Corea del Sud. Ma com’era successo per il suo primo film in occidente, La Vérité, anche Broker parla di una famiglia senza lo stesso cognome: la Corea è incredibilmente simile al Giappone di Un affare di famiglia, un paese di diseguaglianze, e il cambio di location sembra solo dare un’occasione a Kore’eda per lavorare con Song Kang-ho (come biasimarlo?) e cavalcare l’onda della passione occidentale per la new wave coreana. Eppure, a lezione di diritto di famiglia del maestro Hirokazu, gli studenti escono dall’aula ancora una volta col cuore pieno di amore. I precetti di Kore’eda li sappiamo a memoria ma non stancano mai.
Al centro della vicenda c’è come al solito della figliolanza: So-young (Lee-Ji-eun) dà via il proprio figlio neonato in una cosiddetta “baby box”, quelle che in Italia si definiscono ruote degli esposti, entrambi termini che indicano sia il meccanismo con cui abbandonare anonimamente dei bambini che le istituzioni che se ne prendono cura. So-young non ha fatto i conti con Sang-hyeon (Song Kang-ho) e il suo compare Dong-soo (Gang Dong-won), che hanno il vizietto di rubare i bambini dagli scompartimenti delle baby box per venderli al mercato nero delle adozioni. Scoperti i malfattori, piuttosto che denunciarli, So-young si unisce a loro per avere sì una quota della vendita, ma soprattutto per controllare che il bambino finisca in mani decenti. La ricerca di un acquirente dà vita a un road movie di scapestrati – praticamente la trama dell’Era Glaciale – al quale presto si aggiunge il dolce trovatello Hae-jin, compagno di orfanotrofio di Dong-soo. A pedinarli, due detective (Bae Doona e Lee Joo-young), le quali ci confermano che anche in Corea i poliziotti si accoppiano solo quando non vanno d’accordo.
I protagonisti di Broker alternano momenti teneri, pucciosi quasi, a efferati crimini, ma sono sempre i primi a guidare lo sguardo. Come ormai insegna Kore’eda, prima dei gesti ci sono le motivazioni. Quindi va bene uccidere il mafioso che minaccia i tuoi amici, va bene rapire un orfano se è per farlo sentire amato. Anche il gesto più estremo e cattivo, abbandonare un bambino, è un atto di amore profondo e immacolato. Broker porta noi e i suoi personaggi in acque difficili: So-young vuole abbandonare il suo bambino ma non l’ha voluto privare della vita. Nella scena più bella del film, So-young spegne la luce e dice agli altri compagni e a suo figlio “grazie di essere venuti al mondo”. È una visione così dolce che fa male. Se gli anti-abortisti fossero tutti così, la battaglia per i diritti sarebbe molto più difficile. Ad essere conciliatori, possiamo vederla così: Kore’eda ci dice che ognuno è libero di fare quello che vuole purché ci sia sempre amore. Ma sembra essere chiaro che per il regista la vita è degna di essere vissuta anche quando manca tutto.
La ripetizione, dunque, nel cinema di Kore’eda sembra trovare i motivi dell’esortazione civile, più che dell’ossessione artistica o personale. Non per niente, il regista ha dichiarato di ispirarsi molto a Ken Loach, un regista diverso – molto più apertamente politico – e per certi versi all’opposto – realista, ultimamente molto pessimista. Mentre Ken Loach insegna per moniti, Kore’eda dà buone novelle in cui i bambini sono sempre dei santi, e tutti gli adulti sono un po’ bambini. Entrambi vincitori della Palma d’Oro nel giro di tre edizioni – un premio molto politico negli anni Dieci – il loro cinema provvede a esempi che possano formare l’essere umano o lo spettatore borghese. Non a caso, i protagonisti di Broker, come erano quelli di Un affare di famiglia, stanno ai margini della società: sono i buoni, che di fronte alle immagini di Kore’eda ci accorgiamo di aver dimenticato.
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