Vincitore del Leone d’Oro alla passata edizione della Mostra del Cinema di Venezia (2020), Nomadland è il film che consacra definitivamente la carriera della regista cinese, Chloé Zhao dopo aver attirato l’attenzione con un film atipico, semi documentaristico, The Rider uscito nel 2017. Questa volta l’autrice, che ha scritto anche la sceneggiatura, si addentra in una storia tipica americana, che strizza l’occhio alla tradizione pionieristica degli Stati Uniti con l’adattamento filmico del libro scritto dalla giornalista Jessica Bruder.  Un film che tratta di nomadismo, di uno stile di vita ormai atipico, votato alla libertà, all’avventura, alla semplicità, fatto di vagabondi, ma non di “senza casa”. Attraverso un taglio documentaristico che predilige mostrare piuttosto che raccontare la storia in maniera classica, seguiamo la vita di una neo-nomade, Fern, che per necessità intraprende un nuovo percorso di vita. Questo lungometraggio è improntato per seguire i momenti felici, riprendendo, in maniera spontanea, la sua quotidianità. Taglio filmico che cerca anche di carpire le motivazioni che stanno alla base di questa scelta; senza giudicare o prendere posizione. Mostrare per lasciar valutare allo spettatore se lo stile di vita intrapreso può essere soddisfacente o meno. Vita fatta di privazioni o votata alla semplicità e alla scoperta del proprio posto nel mondo?

Fern si sposta costantemente con il suo van e lavora saltuariamente in un posto all’altro. Incontra tante persone che come lei che hanno intrapreso questo percorso di nomadismo. Ognuno con le proprie motivazioni e all’interno del suo viaggio assistiamo al racconto di altre prospettive, di altre persone che hanno scelto questo percorso. Una vita complicata, differente, ma che ha forti motivazioni viscerali e personali.

Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

Proprio come un documentario, fatto di pluralità di sguardi, la storia è intensa, intima, vera. Zhao impronta la pellicola in questa maniera, quasi neorealista, per mettere in mostra questo stile di vita genuino, senza filtri, contaminando realtà con la finzione. Senza presentare argomentazioni filosofiche o utopistiche poiché l’abbandono alla vita materiale avviene attraverso una forte presa di coscienza sul proprio essere, in cui la strada diventa la rappresentazione del proprio percorso di vita; il viaggio che ognuno di noi compie su questa terra e che permette di sentirsi parte di essa, di abbracciarla e di cogliere la vera coscienza di sé. Fern diventa la rappresentazione filmica, il simulacro di un intero popolo di nomadi che per una ragione (o per l’altra) ha abbracciato uno stile di vita differente, votato alla genuinità, alla spontaneità, ad un percorso che si rifà alle radici intrinseche degli esseri umani. Dello stato di natura, di girovaghi e di senza meta. Vivere ogni giorno la propria vita in un posto differente, senza sapere dove “la strada” li porterà domani. Liberi, senza radici. Il ricercare il domani, la bellezza del nuovo, ogni giorno. Assaporare la vita in maniera differente in ogni istante, in ogni luogo.

Lo stile nomade è l’unico possibile per Fern, per il suo essere, per come concepisce la sua vita. Si vede solo come una girovaghe. Vuole passare cosi il restante tempo della sua vita. Ora svincolata da ogni affetto “materiale” può abbracciare il richiamo del nomadismo e mettersi in viaggio. La natura è un elemento importante all’interno della pellicola perché è uno dei richiami principali e primordiali che portano ad abbracciare questo stile di vita, votato anche al contatto con l’ambiente. Al riconciliarsi con il verde, con la terra, con il creato. Perciò, il film mostra paesaggi mozzafiato, le rocce, il deserto. Ambienti diversi che invocano ad un ritorno all’amore alla Madre Natura. Alla bellezza della vita in ogni sua forma. Il contatto diretto con la primordialità della vita.

Dal punto di vista poetico e stilistico, Nomadland non è molto diverso da The Rider. I due lungometraggi di Zhao sono concepiti nel medesimo modo e mettono in risalto un ritorno al contatto con la natura. Un ritorno alle radici “verdi” dell’uomo. Il taglio semi documentaristico amplifica la portata emotiva e l’intensità di un percorso che si rifà a valori genuini e tradizionali. L’utilizzo di camera a mano per essere direttamente nel centro dell’azione e ci sono numerosi momenti riflessivi in cui assistiamo ad un abbraccio tra uomo e natura. Ci si può beare dalla bellezza di questi dipinti, di questi scorci, naturali dove si assiste ad un legame vero tra queste due componenti che, finalmente, trovano una pace. Inoltre, questo stile è diretto, fatto di testimonianze, di voci diverse che colpisco ed entrano nel cuore dello spettatore. A livello registico è un percorso insolito in quanto fatto sul campo e filmato senza avere filtri o una struttura predeterminata. Si lascia trasportare dalla corrente, dal flusso della storia che vuole raccontare proprio come un vero documentario. Per rappresentare uno scorcio di verità. Quella assoluta.

Le storie dei vari nomadi sono cosi tangibili e, seppur a volte si faccia fatica a comprendere le reali motivazioni di tale scelta, la si rispetta perché colpiti da tale forza decisionale nel voler intraprendere un percorso differente, visto dalla maggior parte degli esseri umani come una vita fatta di sofferenza e di privazione. Nomadland serve anche ad abbattere questo muro, questi stereotipi sui nomadi che vengono visti dalla società come dei delinquenti, dei senza casa, dei disadattati.

Frances McDormand è bravissima nel rendere credibile la sua parte, l’unica fittizia (insieme al co-protagonista maschile David Strathairn) tra i numerosi non protagonisti, reali, che si susseguono nel lungometraggio. Rende molto bene la dolcezza, la solitudine e la voglia di comunità e di relazionarsi con il prossimo. Una persona empatica, pratica, socievole, operosa, decisa e riflessiva. Un ruolo atipico, difficile, che rende molto bene ed è in grado di interagire con persone vere, non attori che recitano un copione preconfezionato.

Piccola menzione alla musica che è stata composta dal nostro Ludovico Einaudi. Non ci sono grossi momenti musicali ma quando avvengono, i tappeti musicali sono perfetti per dipingere panorami ambientali mozzafiato, in grado di guidare lo spettatore all’interno dell’intimità della protagonista.

Nomadland è un film inteso, piacevole e pieno di suggestioni. Tuttavia, la cosa importante del film è la sua capacità di intrattenere attraverso una storia difficile, che mette in mostra uno stile di vita ostico da rappresentare sul grande schermo in maniera efficace in quanto poco noto al grande pubblico. C’è una forte componente umana, il ritorno alle radici, allo stato di natura, in una storia piena di verità, di persone vere che apportano al lungometraggio momenti di vita che amplificano l’aurea emozionale. Un percorso, un viaggio all’insegna della vita raccontata attraverso un caleidoscopio di paesaggi, di situazioni, di personaggi che veri, tangibili, infondono calore e cuore ad un viaggio che diviene onirico, poetico, spirituale. Un flusso di coscienza su valori tradizionali, naturali che sono intrinsechi dell’essere umano. Alla ricerca del vero io, dove c’è necessita di ampliare il proprio sguardo per trovare il proprio posto del mondo e perciò ci si mette in auto e si viaggio, abbandonati al percorso, senza meta, senza confini. Abbandonando amici e famigliari. La strada prima o poi convergerà e ci farà riabbracciare tutti e ci permetterà di trovare il nostro posto. “Ci vediamo per strada”

 

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