E’ il 6 aprile 1917. Nel pieno del primo conflitto mondiale a due giovani soldati inglesi, Schofield e Blake, viene affidato il compito di attraversare il territorio tedesco per bloccare un attacco che costerà la vita a più di 1600 uomini.
La trama effettiva del film non aggiunge molto a quanto era già intuibile dal trailer. Il film infatti non punta allo sviluppo di contenuti né alla resa morale o violenta della guerra (prendiamo ad esempio il surreale passaggio da campi militari a idilliaci campi fioriti, che si limita ad offrire settings diversi ai successivi traguardi intermedi raggiunti dai militari), piuttosto ad accrescere il coinvolgimento dello spettatore.
Nonostante il richiamo finale del film alle memorie del nonno di Mendes, quelle che mancano nella pellicola sono proprio le storie: l’unico sguardo concesso è quello sui due soldati e sulla loro missione, il mondo in fuori campo non è che un pretesto per la loro azione.
I fiori sono l’unico elemento di calore del film (una sorta di firma di Mendes, se si ripensa ad American Beauty): petali e fiori che si presentano pesantemente a inizio e fine della pellicola e in un momento di grande difficoltà che vede Schofield aggrappato a un ramo immerso in un fiume. Le piante crescono nonostante la morte che circonda i due caporali e infondono speranza di vita ai due giovani (speranza cantata con Wayfaring Stranger anche dal plotone inglese rifugiato tra gli alberi). L’apertura e la chiusura del film sul campo fiorito mostrano sentimentalmente il desiderio di ritorno all’ordine, alla casa e alla tranquillità.
1917 è tecnicamente ineccepibile, dalla musica alla fotografia di Deakins alla gestione della macchina da presa, ma proprio riguardo quest’ultima e il doppio (apparente, in quanto diverse inquadrature sono state unite digitalmente) piano sequenza in cui è impegnata potremmo chiederci in che modo nel film essi vengano utilizzati. Il piano sequenza non ha infatti il valore baziniano di coincidenza tra momenti reali e momenti filmici, di scultura e impressione del tempo (la pellicola dura circa due ore, mentre la missione dei soldati una mezza giornata), ma viene impiegato piuttosto per sottolineare la fluidità dei movimenti e amplificare l’esperienza immersiva del pubblico. L’attenzione del regista non è dunque rivolta allo sviluppo della storia, quanto allo scorrere nei diversi spazi dell’azione, di cui lo spettatore sembra essere un terzo attore. Il punto di vista così serrato sull’operazione militare impedisce libertà di immaginazione e interpretazione di contesti e avvenimenti: l’unico elemento rilevante è l’avanzamento verso l’obiettivo, in uno schema manifestamente lineare.
Il primo piano sequenza viene bruscamente interrotto quando Schofield viene colpito da un proiettile e sviene: lo schermo si tinge interamente di nero e pare che la missione sia fallita, “game over”. Il film in effetti ha la stessa struttura narrativa e ambientale di un videogioco. Che tra il mondo videoludico e quello cinematografico il confine sia sottile e l’influenza rilevante non è una novità, c’è tuttavia da domandarsi quanto e in che modalità l’esperienza del prosumer da console possa essere inserita nel cinema senza che il prodotto finale e finito non ne esca semplificato e banalizzato da un punto di vista di significato.
Il film di Mendes, pur risultando nel complesso insipido, è stimolante per una riflessione sull’andamento dell’industria cinematografica e del suo ruolo all’interno del mondo dell’intrattenimento.
Ilaria Zaccariello
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