Dopo il trionfo all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (a dispetto delle polemiche), arriva nelle sale italiane L’ufficiale e la spia, insipido titolo italiano del J’accuse di Roman Polanski.
Incentrato sul tristemente celebre Affare Dreyfus, uno dei più gravi scandali della storia francese, il film è tratto dall’omonimo best seller di Robert Harris del 2014 ed è co-prodotto da Alain Goldman e Luca Barbareschi (qui in un cameo).
Il film si apre senza preamboli, nel gennaio del 1895, proprio con la pubblica umiliazione del giovane capitano Alfred Dreyfus, che viene letteralmente spogliato dei suoi gradi nel cortile dell’École Militaire di Parigi, sotto gli occhi biasimevoli dei suoi commilitoni. La sua colpa sarebbe quella di essere una spia e di aver comunicato informazioni segrete alla Germania, motivo per cui viene tacciato di alto tradimento e mandato in isolamento sull’Isola del Diavolo, nell’Oceano Atlantico. Tra i principali accusatori di Dreyfus c’è George Piquart, un colonnello dal gran senso dell’onore e della giustizia, che per questo viene promosso e messo a capo della Sezione Statistica, l’area del controspionaggio responsabile della condanna del capitano. È proprio all’interno di questi uffici che Piquart si rende conto che, nonostante l’uscita di scena del colpevole, le informazioni continuano a varcare i confini della Francia e che dunque l’ipotesi di un complotto si fa sempre più concreta.
Focalizzando la vicenda sulle azioni e la figura di Piquart, determinato a scoprire la verità e scagionare l’innocente Dreyfus, Polanski dà vita al romanzo di Harris, qui ancora una volta (dopo L’uomo nell’ombra) in veste di sceneggiatore, utilizzando tutta la sua abilità di narratore nel dipingere, con la consueta e maniacale dovizia di particolari. Si dipana la storia di una persecuzione ai danni di un innocente, capro espiatorio a causa delle sue origini ebree, ma anche di un uomo onesto come Piquart – deciso a combattere per la verità per questioni etiche e per senso di colpa – le cui indagini vengono prima scoraggiate e poi pericolosamente ostacolate dalle alte sfere dell’esercito, in un groviglio di insabbiamenti e corruzione. La rappresentazione degli uffici della Section de Statistiques, con le sue stanze tetre e polverose e i suoi esponenti tutt’altro che ligi al dovere, è più che mai emblematica in tal senso.
Polanski presenta in una veste di grande raffinatezza una vicenda storica che tuttavia è tristemente attuale per ciò che riguarda il richiamo esasperato e ipocrita del nazionalismo, la corruzione e l’omertà all’interno dell’ambiente militare e la cieca obbedienza dei soldati, il cui unico interesse è quello di eseguire gli ordini dei propri superiori e mantenere uno status quo, a costo di togliere di mezzo chiunque rappresenti un ostacolo – commilitoni compresi – e di azzerare il proprio buon senso.
Simbolo della pubblica accusa alla Repubblica Francese, in questo senso, è la celebre lettera dello scrittore Emile Zola – J’accuse..! appunto, anch’essa presente nel film – pubblicata dal quotidiano L’Aurore il 13 gennaio 1898, tre anni dopo l’incarcerazione di Dreyfus. A rafforzare il tutto la vincente scelta del cast, in particolare, da un lato il protagonista Jean Dujardin, sempre a suo agio nei panni di uomo d’altri tempi (per aspetto e maniere), dall’altro il co-protagonista Louis Garrel, invecchiato e stempiato ma tutto d’un pezzo e dal piglio solenne: due icone del cinema francese contemporaneo di indiscusso talento, fascino ed eleganza in un faccia a faccia unico nel suo genere.
Con l’intento di raccontare una vicenda che lo ha profondamente colpito, il regista, inoltre, ne approfitta per parlare ancora una volta di antisemitismo, tema che lo tocca personalmente e che oggi è tutt’altro che scomparso ma piuttosto ha mutato forma, a braccetto con il dilagante spettro della xenofobia. E del resto, solo i grandi maestri del cinema riescono, con il “solo” strumento della ricostruzione storica, a parlare così direttamente alle coscienze di oggi.
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