Una mostra e un documentario da vedere. A Bologna fino al 5 gennaio 2020.
Il nostro pianeta vive da 250 milioni di anni. Eppure i più grandi cambiamenti che sono avvenuti in esso sono dovuti, pressappoco, solo negli ultimi 10.000, con l’avvento della razza umana.
Si tratta di un’epoca definita comunemente “Olocene”, ma da anni molti scienziati e antropologi (in particolare il biologo Eugene F. Stoermer e il chimico Paul Crutzen, che per primi ne hanno definito il nome) insistono per ridefinirla Anthropocene, ossia “l’età dell’uomo”.
Non esiste, infatti, nessun altro tipo di essere vivente che è stato in grado di influenzare e cambiare radicalmente il paesaggio terrestre come l’uomo. Nel bene e nel male.
Da questo presupposto nasce Anthropocene – The Human Epoch, una mostra fotografica e un documentario (strettamente annessi e correlati fra loro) a cura del fotografo Edward Burtynsky e dei registi canadesi Jennifer Baichwal e Nicholas De Pencier.
La mostra fotografica è stata inaugurata lo scorso 16 maggio presso il MAST di Bologna e rimarrà aperta fino al 5 gennaio 2020.
Divise tematicamente su tre piani, le fotografie di Burtynsky mostrano diversi tipi di rapporto uomo-ambiente: dalla lavorazione del marmo di Carrara (estrapolato dalle montagne dell’Appennino Tosco-Emiliano), alle cave di carbone di Hambach in Germania (ottenute radendo al suolo intere città e campagne), fino allo sviluppo delle megalopoli africane e i problemi relativi alla barriera corallina australiana.
Una grande mostra multimediale che fa riflettere e capire molte cose relative al nostro impatto sul pianeta Terra e che tratta temi come la perdita della biodiversità terrestre e i cambiamenti climatici di cui si avvertono ogni giorno di più le conseguenze.
Ma per capire veramente a fondo la mostra e vedere con i propri occhi i problemi descritti è necessario prendersi un’ora di tempo e vedere anche il documentario omonimo a cura del duo Baichwal-De Pencier (proiettato ogni giorno due volte all’interno della galleria), già premiato nell’edizione 2018 del Toronto International Film Festival.
Il film, che ha avuto anche una proiezione speciale in Piazza Maggiore durante la rassegna estiva Sotto le stelle del cinema, si apre fin da subito in medias res con la visione di un incendio. Scelta emblematica, dal momento che il fuoco è stata la prima grande scoperta che ha permesso l’evoluzione dell’essere umano, la sua prima grande arma per poter dominare gli altri animali e poi la natura.
Ma quello mostrato non è un normale incendio. Si tratta della distruzione, tramite rogo, di numerose cataste di zanne di elefanti, sottratte dal governo kenyota ai bracconieri, in seguito alla legge ha decretato il divieto di bracconaggio nel Paese (dopo anni di attività illegali legate a questa pratica). Il tutto viene lasciato spiegare direttamente dai volontari e addetti ai lavori che hanno contribuito a questa grande impresa. La voce narrante fuoricampo (un’ottima Alicia Vikander), invece, si limita a descrivere il significato di Anthropocene e la storia dei cambiamenti che l’umanità ha apportato nel pianeta.
Così i due registi mostrano fin da subito le loro intenzioni, dopo questa scena dall’alto impatto emotivo. L’uso della voce narrante è in realtà molto limitato poiché si preferisce limitarla ai momenti veramente topici della narrazione, dando così la precedenza al puro aspetto visivo dell’opera. Lo spettatore è dunque solo “accompagnato” nelle diverse sezioni di cui si divide il film, ma il giudizio finale su di esse è sospeso, lasciato solo alle sue sensazioni.
Quello che importa è l’atto del mostrare. Tra l’altro con una tecnica veramente eccezionale che si serve del time-lapse (ad esempio per quanto riguarda i cambiamenti della barriera corallina) e dei droni. Il risultato è una fotografia eccezionale che restituisce in maniera chiara e profondamente suggestiva gli ambienti narrati. Una vera e propria tavolozza di colori che disegna il paesaggio “rimodellato” dagli esseri umani.
In ogni sezione si sperimenta molto a livello tecnico, facendo sì che il documentario abbia una natura eclettica, per cui è veramente impossibile annoiarsi durante la visione. Da segnalare, in particolar modo, la scena del traforo del San Gottardo, in cui, grazie all’uso di telecamere a 360 gradi poste sul treno, è possibile godere di un viaggio inedito che ripercorre il tratto della galleria sotterranea per tutti i suoi 20 minuti di percorrenza.
Un viaggio spirituale che si ricollega alla volontà di “entrare dentro” le cose, testimoniato dai lunghi e insistiti primi piani e movimenti di macchina che percorrono tutta la pellicola. Un’esigenza di visione che nasce dall’urgenza di far passare un messaggio molto attuale e importante: le risorse si stanno esaurendo e i cambiamenti climatici rendono sempre più impossibile lo sviluppo della vita sulla Terra.
Ma tutto questo viene spiegato senza toni apocalittici o simili. Anzi, il messaggio finale rilascia molta speranza per quanto riguarda ciò che gli uomini potrebbero fare per invertire questa rotta. Grazie all’impegno e alle scelte consapevoli nella vita di tutti i giorni certamente, ma anche grazie allo sviluppo della bio-ingegneria e delle risorse energetiche alternative.
Così la tecnica cinematografica e la stupenda fotografia del documentario riescono nello scopo di mostrare tutta la bellezza e lo stupore di fronte ai cambiamenti operati dall’uomo sul pianeta. Tramite questo “effetto WOW” di cui si nutre la pellicola, anche il messaggio s’imprime a fondo nella mente dello spettatore. E infatti, a questo punto, la telecamera si allontana dal soggetto mostrato per andare proprio verso lo spettatore, con una lungo movimento di macchina che si erge sempre di più fino all’alto, mostrando il pianeta Terra come uno specchio in cui riconoscersi. Il destino dell’uomo e del suo pianeta sono strettamente correlati.
Il documentario ha un movimento e una struttura circolari (anche in questo caso emblematici), un ritmo che non annoia di certo e una grande capacità di empatia. Ed è oltretutto una tappa fondamentale se si vuole capire a fondo anche la mostra stessa, che fa della multimedialità il suo punto di forza, ma che rischia, altrimenti, di apparire un po’ troppo frammentata senza questa “visione d’insieme” del tema di cui tratta.
Se siete interessati alla mostra e alle tematiche esposte, non potete quindi assolutamente perdervi quest’opera, per di più se la visione (e la visita alla mostra stessa) sono completamente gratuite.
Il MAST è aperto da martedì a domenica con orario continuato dalle 10 alle 19. La proiezione del documentario è alle 11, alle 16 e alle 20.30 (orari precisi consultabili qui).
Se non avete idee su cosa fare in questi ultimi giorni d’estate provate a ritagliarvi un momento per visitare la mostra e vedere il documentario. Ne vale la pena!
Anthropocene – L’epoca umana arriverà nelle sale italiane a settembre grazie a Fondazione Stensen.
Ecco il poster:
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