“Parla di morte” è la battuta iniziale del documentario di Agostino Ferrente, presentato, dopo essere passato per lo scorso Festival di Berlino, al museo d’arte contemporanea di Roma, il MAXXI.
E’ infatti una vicenda di cronaca nera, l’omicidio di un sedicenne, Davide Bifolco, ucciso dalla polizia per uno scambio d’identità, a portare l’attenzione del regista in un dislocato quartiere napoletano, il Rione Traiano. Molto lontano dall’imaginario di una città colorata, pur nella sua decadenza, e vitale, il Rione Traiano si presenta al contrario squallido e grigio, senza nemmeno uno scorcio sul mare, una zona dove la malavita è tanto compenetrata nell’amministrazione della quotidianità, da rendere difficile una distinzione sicura tra vittime e carnefici.
Eppure una linea divisoria esiste ed è tanto più forte e significativa in quanto pone di fronte una scelta spesso difficile da compiere, quella tra uno stile di vita instabile ma allo stesso tempo comodo e remunerativo, ed un altro più umile e faticoso; Davide Bifolco apparteneva a questa seconda categoria di persone e così i due suoi amici, Alessandro e Pietro, protagonisti del documentario; si presentano in questo modo al regista ed agli spettatori, entrambi sedicenni, entrambi dalla parte giusta del Rione.
A questo punto risulta chiaro che lo spettro d’indagine di Agostino Ferrente non si ferma soltanto alla morte, non si limita semplicemente ad un’inchiesta sull’uccisione ingiustificata di un ragazzo, ma allarga invece lo sguardo sulle dinamiche di una realtà che, per una questione anche di geografia e di conformazione, sembra quanto mai distante dal raggio d’azione statale. Per farlo il regista sceglie una modalità insolita di messa in scena, che passa per un mezzo non strettamente cinematografico, uno smartphone affidato in modalità “selfie” ai due protagonisti, cui viene richiesta una rappresentazione del quartiere, delle sue persone e dei suoi luoghi.
Lo sguardo è però veramente singolare e, proprio in virtù di questa “modalità selfie”, permette uno scambio immediato con le diverse parti del racconto, che non si serve neppure dell’artificio tecnico dell’inquadratura in soggettiva o del controcampo. I personaggi dialoganti, i luoghi e le situazioni sono sempre presenti contemporaneamente sulla scena in uno scambio continuo. Le uniche parentesi inserite dal regista sono delle riprese ricavate da alcune telecamere di sorveglianza, che restituiscono come un senso di parziale oggettività ad un racconto altrimenti filtrato unicamente dal punto di vista dei due ragazzi: il Viale Traiano è effettivamente popolato di bambini che fumano e ragazzi che sparano, Davide Bifolco è realmente stato ucciso sedicenne dalla polizia, con un colpo di pistola che lo ha preso di spalle mentre correva su un motorino con altre due persone in sella.
La rappresentazione che ne deriva è dunque una somma di punti di vista, quello più evidente, a tratti anche discorde, dei due adolescenti Pietro ed Alessandro, che raccontano in modo molto personale le dinamiche del Rione Traiano, e quello più distaccato, pur sempre partecipe, del regista, che orchestra una narrazione controversa, originale e sensibile, priva di condanne moralistiche, ma che riflette e fa riflettere attraverso la dialettica del selfie.
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