Stravince nella prima settimana di programmazione nelle sale italiane il film che si prospetta essere uno dei biopic musicali più amati della storia, Bohemian Rhapsody. Incentrato sui primi 15 anni di carriera dei Queen, il film vede finalmente la luce dopo una lunghissima gestazione e un’infinita serie di problematiche, come inumerosi cambi di sceneggiatura, l’abbandono dell’attore Sacha Baron Cohen e infine del regista Bryan Singer, che sebbene compaia nei credits non ha effettivamente completato le riprese, né supervisionato la post-produzione.
Il film inizia presentandoci un giovane e insoddisfatto Farook Bulsara alle prese con un padre tradizionalista, che mal sopporta il look eccentrico e le velleità artistiche del ragazzo, e un lavoro poco gratificante, abbinato a un velato clima di razzismo. Ma nella scintillante Londra di inizio anni Settanta tutto è possibile eFarook si trasforma ben presto nel Freddie Mercury che tutti conosciamo, il leader carismatico e talentuoso di coloro che ben presto diventeranno i Queen. Così, grazie al loro talento e al loro sodalizio, insieme alla sfrontatezza e alla creatività di Freddie, le quattro Regine del rock inizieranno a suonare nei locali, poi a scalare le classifiche, partire per i tour in giro per il mondo e creare le canzoni e gli album divenuti celebri, per poi giungere all’esibizione del colossale Live Aid del 1985, che chiude il film.
I Queen e la Regina
Bohemian Rhapsody si sofferma sulle luci e ombre che hanno arricchito il percorso del gruppo più amato della storia della musica e racconta le iniziali difficoltà con le case discografiche, restie ad accettare uno stile così originale e provocatore, fuori dai canoni dell’epoca, ma anche la rivalità tra i membri per i testi delle canzoni e soprattutto lo stile di vita dissoluto di Freddie, laRegina, che inevitabilmente distrugge l’equilibrio della band. Proprio questo aspetto, in effetti, rappresenta la parte più interessante del film, poiché ritrae il profilo di Mercury in una maniera il più possibile onesta – sebbene comprensibilmente edulcorata – con la sua forza di volontà, la sua stravaganza, i suoi sentimenti forti e sinceri, ma anche la sua voglia di primeggiare e di trasgredire, il suo egocentrismo, la sua spavalderia, il suo edonismo, i suoi eccessi, il suo bifrontismo di mascolinità e femminilità, la sua paura della solitudine, il suo genio fuori dal comune, che affascina ma spesso sovrasta chi gli si trova intorno. La sua visione di artista, di rockstar alla continua e incontentabile ricerca della grandezza non si adegua ai limiti chegli vengono imposti dai compagni, dai manager e dagli impegni e culmina nella decisione di allontanarsi dal gruppo, per intraprendere una carriera da solista. Il ritorno di Freddie con i Queen, alle soglie del Live Aid, coincide con la scoperta della malattia e dunque con la volontà tornare alle origini con tutta l’energia possibile, finché ce n’è la possibilità.
In tutto questo turbine di avvenimenti, Freddie vivrà alcune relazioni amorose, come quella negativa con Paul Prenter (Allen Leech) e quella finale con Jim Hutton (Aaron McCusker), che gli starà accanto fino alla morte nel 1991. Ma “l’amore della sua vita” rimarrà la prima fidanzata Mary Austin (Lucy Boynton), che lo sosterrà imperterrita anche dopo aver appreso della sua omosessualità, e la tenerezza del loro rapporto rappresenta uno dei motivi più intensi e coinvolgenti del film.
Realtà, finzione, documentario?
Con la direzione effettiva di Dexter Fletcher (che invece non èaccreditato) e la sceneggiatura di Anthony McCarten, Bohemian Rhapsody sta facendo molto parlare di sé, non solo perché ha soddisfatto la lunga attesa di migliaia di fan in giro per il mondo, ma anche per via delle numerose scelte narrative sui generis. Il film, infatti, non intende riportare fedelmente la storia dei Queen, né quella professionale e intima del compianto Freddie Mercury, come erroneamente si potrebbe pensare, bensì costruire un’opera biografica dove vicende storiche, racconto e documentario si mescolano senza stonare.
Innanzitutto, agli avvenimenti storicamente accurati se ne susseguono altrettanti meno aderenti alla realtà dei fatti, sia per la presenza di personaggi romanzati e “iconici” che per l’inesattezza di alcune date ed eventi, adattati per esigenze cinematografiche o totalmente inventati. Si pensi ad alcune figure, come Ray Foster (Mike Myers), boss della EMI, che rappresenta l’insieme dei manager discografici che non ebbero fiducia nei Queen, oppure a Paul Prenter, assistente-amante di Freddie che lo distoglie dai suoi impegni professionali, simbolo delle “cattive compagnie”. Diverse vicende, inoltre, si rivelano cronologicamente inesatte perché funzionali all’impianto narrativo, come la sequenza in cui Freddie rivela ai suoi compagni di essere affetto da AIDS, fatto in realtà avvenuto alla fine degli anni Ottanta. Infine, la rottura dei Queen non è mai concretamente avvenuta, nemmeno nel periodo in cui Mercury era impegnato in progetti da solista.
La parte documentaristica è affidata agli ultimi venti minuti del film, che si concentrano sull’indimenticabile performance dei Queen al Live Aid, leggendario concerto benefico organizzato da Bob Geldof al Wembley Stadium. In questo caso la fedeltà dei dettagli è a dir poco impressionante nel mostrare semplicemente un montaggio alternativo a quello ufficiale dell’evento, che comprende l’esibizione completa della band e i volti estasiati deglispettatori.
“Abitare” la leggenda
Al di là dell’opinione sulle scelte narrative, un plauso va al cast nella sua interezza ma in particolar modo ai membri della band: Joseph Mazzello nel ruolo di John Deacon, Ben Hardy in quello di Roger Taylor e Gwilym Lee spaventosamente somigliante a Brian May dipingono perfettamente i caratteri dominanti dei tre, nonché il clima di affiatamento e rivalità che intercorreva tra loro. Spicca però su tutti, indiscutibilmente, un magistrale Rami Malek nei panni di Freddie Mercury, reduce da un’impresa titanica, uno studio lungo, certosino e meticoloso di ogni documento e performance esistente del cantante. Malek si appropria in maniera impressionate di ogni minimo dettaglio, dalle smorfie con la bocca alle pose da diva, dai movimenti delle performance al modo di camminare e gesticolare: per parafrasare Brian May, l’attore ha letteralmente “abitato” Freddie Mercury, l’uomo e la leggenda, imitandone egregiamente persino la voce in alcune brevi sequenze.
Il cuore dell’opera: la musica
L’aspetto che rende Bohemian Rhapsody un grande film è però l’indiscussa centralità della musica: se da un lato i grandi successi dei Queen vengono inseriti sapientemente per raccontare le vicende sullo schermo, dall’altro il cuore dell’opera si trova proprio nella genesi delle canzoni, nelle performance, nelle sessioni di incisione che si alternano. La sequenza della creazione della hit del titolo, primo vero slancio della carriera della band, vale da sola l’intero film. E l’odore di Oscar si sente già prepotentemente.
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