Rama (Kayije Kagame) è una colta giovane nera parigina, scrittrice e insegnante universitaria. Poco socievole, si nasconde tra le ombre delle sue lunghe trecce nere. Ha imparato la freddezza dall’algida madre franco-senegalese, che non ha mai imparato il francese e non le ha insegnato il wolof. Rama, ora incinta, sta raccogliendo materiale per un libro sul mito di Medea nella contemporaneità. Decide di andare a Saint Omer, paese della provincia parigina, dove Lawrence Coly (Guslagie Malanda), una giovane migrante senegalese, sta per essere processata per aver ucciso la figlia di quindici mesi. Coly non nega l’omicidio ma non lo sa spiegare: “Spero che questo processo mi dia la risposta”, dice. Potrebbe essere stata l’esasperazione per le difficoltà sociali, o un demone evocato dal malocchio, lanciato da chi non le vuole bene. Coly è una donna colta, come Rama, capace sia d’amore che d’apatia, come Rama. Nel mistero di questo omicidio senza pietà, la scrittrice cerca di capire qualcosa di sé: può una madre non amare? E se dovesse succedere a me? Questi dubbi la tormentano. Quando Coly si gira verso la platea del tribunale e vede Rama, nei suoi occhi trova un’intesa, che le muove un sorriso di complicità, terrorizzante per la scrittrice e per noi.

La storia di Saint Omer, il primo film di finzione della documentarista Alice Diop, si ispira a una storia vera. Come Rama, Diop era incinta quando ha seguito il processo dal vivo. Il suo è un dramma giudiziario atipico e lugubre. È atipico intanto per il suo fondamentale disinteresse al dato giuridico: “Il film vuole permettere allo spettatore di sfiorare la psiche di questa donna e le sue motivazioni. Non vuole sostituirsi al giudizio legale o morale”, spiega Diop all’anteprima romana. Questa attenzione non le ha impedito di ricostruire il processo con piglio realista e metodico, utilizzando i verbali per scrivere i copioni. La messa in scena è lenta e asciutta, così che ogni sguardo, ogni gesto delle due donne e degli altri testimoni, lasci emergere il loro sentire, e così che ogni eccedere al campo/controcampo lasci emergere il suo riflettere.

Nei piccoli scarti dalla vicenda reale – nei suoni, nei sogni e ricordi di Rama, nelle vedute del paese – Saint Omer costruisce la sua atmosfera più tetra ed esplora il suo lato più metafisico. Per un paio di volte, il respiro di Rama si incrocia e confonde con la colonna sonora di Thibault Deboaisne, fatta di gemiti e affanni. A chi appartiene questo ansimare? Il film di Alice Diop è infestato da fantasmi, da persone che ci sono ma non si vedono e da persone che non ci sono ma potrebbero esserci. Coly sta camminando in una spiaggia notturna. Solo il suo viso riflette quel poco di luce che illumina la scena. In braccio tiene un fagotto, la piccola Elise, il primo fantasma del film, che lo spettatore non vedrà mai direttamente. Rama si sveglia improvvisamente da un incubo. È così che comincia il film: la madre e la figlia uccisa esordiscono in una materia onirica. In fondo l’atto non può essere compreso, tantomeno visto. Anche al processo, la tinta della camicia di Coly si mimetizza nel legno delle tribune e nel marrone della sua pelle, come se non ci fosse. Il suo è “un mistero che non ha bisogno di essere scoperto o svelato ma semplicemente accolto. Confrontarci col mistero di questa donna senza capirlo ci obbliga a scendere nell’oscurità che appartiene a tutti noi, e quindi a metterci in discussione come esseri umani.”

Quando Rama si sveglia, il suo compagno le dice: “Stavi chiamando tua madre”. Il demone della mancanza di amore aleggia attorno anche a lei, un’altra ombra del film. I suoi pochi dialoghi in wolof non sono sottotitolati, volontariamente. C’è anche uno spettro esplicito, il demone che Coly sostiene la abbia presa di mira, un esempio di razzismo – è un poliziotto a suggerirle che un demone possa averla posseduta – che una donna colta utilizza a suo vantaggio. Ultimi nell’elenco delle presenze misteriose ci siamo noi, gli spettatori del film, spettatori del processo come Rama e Diop, come gli abitanti della Saint Omer del titolo. Diop ha spiegato che i giurati del processo sono interpretati da chi ha assistito al processo vero. “Queste persone hanno vissuto questo evento, durato per settimane, e hanno dovuto assistere all’intolleranza, al razzismo latente degli avvocati e dei procuratori. Le lacrime che versano alla fine del film sono lacrime vere: per loro è stato quasi catartico rimettere in scena questo processo finto”.

Due madri incapaci di amare, due figlie spezzate dall’apatia; le linee delle donne che guardano (la protagonista, la regista, la spettatrice) si incrociano con le linee delle donne guardate, per formare una rete, una dimensione collettiva, che Diop vuole portar alla luce. “Volevo che tutte, migranti o no, nere o no, potessero identificarsi con lei e chiedersi cosa avrebbero fatto al suo posto. Questa è la dimensione universale che mi ha spinta a scrivere Saint Omer”. Una condizione di umane ridotte all’invisibilità, nonostante la concretezza del loro respiro, lo stesso che a schermo nero, chiude il film di Alice Diop.

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