“Se c’è un’immagine ricorrente che definisce il cinema di Steven Spielberg, quella è la Spielberg face” diceva il celebre video-saggio di Kevin B. Lee. Di fronte alla macchina da presa, i personaggi di Spielberg guardano fuori campo con occhi sgranati, meravigliati. Il fuori campo nasconde qualcosa di incredibile: uno squalo gigante, un tesoro nascosto, un’astronave aliena. Quei personaggi sbalorditi siamo anche noi, gli spettatori. Come Laura Dern, le persone in sala nel 1993 rimanevano a bocca aperta di fronte al diplodoco che gli passeggiava davanti. Nonostante siano solo al loro secondo film, esiste già un’immagine ricorrente anche per il cinema di Daniel Kwan e Daniel Scheinert – in arte, Daniels – i pazzi registi dietro a Everything Everywhere All at Once. La Daniels face: la bocca è spalancata, ma le sopracciglia corrugate, lo sguardo è incredulo, ma di una incredulità che non è rivolta alla meraviglia, ma alla confusione, quasi preoccupazione, se non addirittura imbarazzo. Era la faccia di Mary Elizabeth Winstead nel primo film della coppia Swiss Army Man, che di fronte alla visione del cadavere scorreggione di Daniel Radcliffe cavalcato come una moto d’acqua da Paul Dano, giustamente si chiedeva “what the fuck?”.
Evelyn (Michelle Yeoh) è la proprietaria di una lavanderia. L’ha aperta dopo una fuga d’amore con Waymond (Ke Huy Quan), il dolce ma inetto marito, da Hong Kong agli Stati Uniti. Ad aiutarli c’è Joy (Stephanie Hsu), la giovane figlia continuamente incompresa dalla madre. È una giornatina di quelle: Evelyn sta cercando di organizzare una festa per il vecchio e rinco padre Gong Gong (James Hong), Waymond non si sente più amato ed è pronto per un divorzio, mentre Joy vorrebbe includere in famiglia la sua fidanzata Becky. A punta di questo castello di carte c’è l’accertamento tributario indetto per quel pomeriggio dall’agenzia delle entrate. Coperti da un mare di ricevute, Evelyn e Waymond cercano di convincere l’ispettrice Deirdre (Jamie Lee Curtis) che le tasse sono in regola. Come se non bastasse, Evelyn scopre in ascensore dell’esistenza di una tecnologia capace di connetterci e prendere il posto dei nostri doppioni negli infiniti universi paralleli del multi-verso, minacciato da una terribile entità dall’impronunciabile nome Jobu Tupaki. Solo Evelyn può salvarlo e quindi la sua vita è in pericolo, o così le spiega il doppione di suo marito proveniente dal sedicente Alfaverso, l’unico nel quale è stata creata la tecnologia capace di far saltare le persone da universo all’altro.
Le due ore seguenti sono follia e Daniels face. Jobu Tupaki ha levato l’ancora dalla sua linea temporale e viaggia continuamente tra gli universi, vivendo e manifestando contemporaneamente tutte le vite dei suoi doppioni. L’insignificante vita di Evelyn diventa una gigantesca riflessione sulle possibilità dell’universo, tra la vita che avremmo fatto se fossimo scesi col piede sinistro dal letto e la pietra che saremmo stati se la vita non si fosse sviluppata sulla terra. Quando ogni piccolo gesto cambia la nostra vita, cosa rimane del libero arbitrio? Niente ha senso per Jobu Tupaki, a partire dal suo nome e la sua arma di distruzione: un buco nero che in realtà è un bagel, pronto a risucchiare tutto. È la fine della teleologia. La prima parte di Everything Everywhere All at Once è un piccolo trattato di teoria post-moderna: quando abbiamo visto tutte, allora le grandi narrazioni sono inefficaci a spiegare la vita, tutto è frammentario e ibridato, ci rimane solo l’ironia, il nonsense e il pastiche tra Wong Kar-wai e Ratatouille. Il bagel nero, come le lavatrici di Evelyn, risucchiano dentro la luce e tutto dappertutto contemporaneamente.
È tutta una maschera, che il film cala col suo procedere. Everything Everywhere All at Once fa finta di essere un film della Marvel, ma è un piccolo film su una titolare di una lavanderia. Evelyn alle prese con la burocrazia non è Doctor Strange, ma il vecchio Kanji Watanabe di Vivere – e questo è il momento dove celebriamo Michelle Yeoh, attrice capace di vivere tutte le vite che le è richiesto, piangere come Maggie Cheung, menare come Jackie Chan, un’icona davvero. Nella strada maestra di chi usa le storie come pretesto per grossi spettacoli anestetizzanti, i Daniels vanno contromano. Everything Everywhere All at Once è un dolce e sgangherato film umano, sul privato, sulla depressione, sull’incomprensione, sulla quotidianità, ambientato per la maggior parte in un palazzo dell’agenzia delle entrate. I Daniels ripercorrono l’assurdo di Jameson e Lyotard, i maestri del postmoderno, per ritrovare la morale. Il viaggio li porta al Senso del filosofo Vasco, che se anche è vero che non c’è, un senso a questa vita, bisogna trovarlo. Ed è citofonatissimo il senso della vita per i Daniels, perché è quello che certi uomini e donne urlano da quando l’uomo ha imparato a parlare, su cui si sono basati movimenti politici, religioni, scuole filosofiche, è sempre quello: vogliamoci bene. Cerchiamo di essere gentili con chi ci vuole bene ed empatici per chi ci vuole male. Sì all’ironia ma no al cinismo. E se la vita non ha senso, godiamoci il viaggio, stupiamoci di fronte agli universi paralleli e come bambini giochiamo a fare i film di supereroi e sui cadaveri con meteorismo, ma sì dai. È una lavatrice la vita, viviamola insieme.
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