La docu-serie sull’ultima stagione di Michael Jordan ai Chicago Bulls è la rivelazione di questo 2020 di Netflix. Vediamo il perché.
“What time is it?”
“Game Time, wooh!”
Dal 20 aprile 2020 è disponibile sulla piattaforma Netflix la docu-serie The Last Dance che racconta la stagione NBA 1997-1998, l’ultima che ha visto all’opera la “dinastia dei Chicago Bulls” con la vittoria del sesto anello consecutivo ad opera della squadra capitanata da Michael Jordan, prima del successivo ritiro del giocatore.
Questo imponente lavoro di documentazione ed archivio diviso in 10 puntate (ad uscita settimanale), a cura del duo di produttori-registi Michael Tollin e Jason Heir, parte in realtà da molto lontano. Durante la stessa stagione 1997-1998, infatti, Michael Tollin, all’epoca produttore per il canale televisivo americano NBA Entertainment, ebbe il permesso di poter seguire ininterrottamente i lavori dello staff dei Chicago Bulls. La franchigia, infatti, era all’apice del proprio successo con i suoi 5 titoli vinti, ed era già stato annunciato, prima dell’inizio del campionato, che quella sarebbe stata l’ultima stagione per il gruppo storico allenato dal guru-allenatore Phil Jackson. Consapevole dell’importanza che tale decisione avrebbe avuto per la storia della pallacanestro (la chiusura di un ciclo sportivo senza precedenti), Tollin ebbe la possibilità di seguire “live” tutto quello che avveniva dietro le quinte della stagione (allenamenti, attività esterne dei giocatori, interviste, ritiri…) come in una sorta di Truman Show privilegiato per gli addetti ai lavori.
Il risultato finale furono circa 500 ore di girato che sono rimasti fino ad ora inedite poiché il contratto prevedeva la clausola che tutto il materiale sarebbe rimasto sotto proprietà dello stesso Michael Jordan, e usato solo tramite il suo permesso. Non si sa bene come (ma probabilmente l’interessamento di una piattaforma globale come Netflix può aver pesato sulla decisione di Jordan) ma, a distanza di più di venti anni, questo lavoro ha finalmente visto la luce grazie al progetto della docu-serie a cura del regista Jason Heir.
E mai scelta fu più lungimirante, anche perché (complice la pandemia causata dal virus Covid-19), la scelta di inserire nel catalogo i primi due episodi della serie e costruire un appuntamento settimanale per le successive puntate, ha reso questa docu-serie la più vista in assoluto per questo genere narrativo della piattaforma, nonché il prodotto Netflix più visto di sempre al mondo (sorpassando il precedente record de La Casa De Papel).
Al di là dei numeri ottenuti, la docu-serie di Heir ha numerosi motivi di interesse per cui si pone al di sopra di quanto visto finora nell’ambito del documentario seriale, e ci sono buone ragioni di vederla anche se non si è necessariamente interessati al mondo della pallacanestro o dello sport in generale.
Innanzitutto va evidenziata l’alta qualità tecnica del prodotto in questione: il lavoro di found-footage, unito alle riprese delle partite dell’epoca (meravigliosamente restaurate in 4k per l’occasione) e l’insieme di interviste e documenti inediti ritrovati, ne fanno una delle opere visive e di montaggio più impressionanti di sempre.
A ciò va aggiunto un certo gusto per lo storytelling sportivo che rende questa docu-serie un prodotto veramente unico.
Partiamo fin da subito con un presupposto importante: la narrazione presente nel documentario è corale, nel senso che protagonista, oltre allo stesso Jordan, è anche il resto della squadra dei Chicago Bulls di quell’annata (Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr e l’allenatore Phil Jackson su tutti) oltre a vari personaggi facenti pare dell’entourage della franchigia, avversari, tifosi, appassionati ecc… ma il punto di vista della serie è invece a senso unico (e parecchio arbitrario) ed è quello del personaggio principale nonché principale voce narrante delle vicende: quello di His Airness, obviously!
La jordancentricità della docu-serie è riscontrabile già dalle prime immagini dell’episodio-pilota: l’inquadratura riprende un imbolsito Jordan di spalle mentre osserva l’esterno della propria casa fumando un sigaro. Tutto attorno l’ambiente è molto minimal sebbene indichi una certa agiatezza, quasi fossimo dentro una sorta di “tempio” laico, la casa di Jordan certamente, ma metaforicamente la sua interiorità.
Di questo tempio il sacerdote-custode è lo stesso Jordan, la cui posizione imponente e assorta lo raffigura come una sorta di monaco zen che possiede una grande verità. Ed è lui stesso ad invitare lo spettatore ad entrare e a condurlo nel viaggio verso questa verità.
E in effetti The Last Dance è più che altro un viaggio all’interno della mente del Jordan-uomo più che del Jordan-giocatore, mettendo in evidenza il “dietro le quinte” delle partite e dei successi conquistati. E questo da solo basterebbe a rendere degno d’attenzione questo prodotto. Si tratta di un viaggio dentro la cultura sportiva e la filosofia del Jordan-pensiero, soggettiva certamente ma allo stesso tempo universale.
Si tratta di qualcosa che non era mai stato fatto prima nel mondo del documentario sportivo. Non che siano mai mancate narrazioni riguardanti le biografie dei grandi campioni sportivi anche dal punto di vista privato (un esempio su tutti è il recente documentario Maradona, sempre distribuito da Netflix), ma se lo storytelling di questi prodotti segue sempre un filo logico che è, per forza di cose, di natura prettamente cronologica, qui siamo in pieno “stream of consciousness” di joyciana memoria. Lo spazio temporale è principalmente quello dei playoff di quella stagione, ma in realtà ogni singola partita presa in esame è una scusa per analizzare, nel dettaglio, l’intera carriera di Jordan e della dinastia-Bulls, che da squadra “di media-fascia” negli anni 80 diventa, nel decennio successivo una franchigia capace di compiere per ben due volte, il cosiddetto three-peats (tre anelli NBA consecutivi). E quindi lasciare allo spettatore un concetto importante riguardo il pensiero e la filosofia di Jordan stesso.
Il risultato dunque è una docu-serie “ibrida” in cui per scoprire il vero focus di tutta la narrazione bisogna necessariamente vedere le puntate dall’inizio alla fine, avendo la pazienza di passare per digressioni e flashback continui (ma di certo non noiosi). In questa narrazione ibrida si passa per episodi più mono-tematici, in cui si evidenzia il rapporto con alcuni personaggi-cardine della vita di Jordan (Phil Jackson, Scottie Pippen, Dennis Rodman…), ad altri in cui invece è la linea orizzontale delle vicende a farla da padrone.
In questo senso la serie ha, inoltre, una profonda valenza storica, prima ancora che sportiva. Da una parte è la testimonianza di un periodo sportivo e di un mondo (quello della pallacanestro professionistica americana) che da Jordan in poi non è stato più lo stesso. Ma assume un’importanza ulteriore anche in senso meta-televisivo: argomento principale su cui ci si sofferma spesso è come è cambiato lo stesso modo di intendere lo sport in generale e lo storytelling sportivo dal dopo-Jordan in poi. Michael Jordan, infatti, è stato uno dei primi sportivi a fare un uso sistematico della propria immagine e a divenire un vero e proprio “brand”, basti pensare agli spot storici e alla nota partnership con l’azienda di scarpe Nike (di cui le Air Jordan sono un prodotto iconico quasi e quanto il personaggio stesso). In un’epoca in cui i social media non erano ancora così determinanti per la comunicazione come oggi, Michael Jordan è stato fin da subito una “case history” vivente, capace di ispirare più con le parole e le immagini che non le azioni, al punto di guadagnarsi la nomea di “meme prima dei meme”. E non a caso alcune scene iconiche di The Last Dance (come la risata con l’iPad in mano) sono diventati fin da subito di dominio pubblico come soggetto delle più svariate gif.
L’importanza della comunicazione nella vita e nella carriera del Jordan sportivo induce inevitabilmente una riflessione sul presente e sull’attualità del marketing sportivo, che da questo punto di vista dimostra di aver appreso la lezione di Jordan in maniera oggi più che mai invasiva. Perfino il documentario stesso si serve di una narrazione fortemente influenzata dal linguaggio dei social media (numerosi sono i momenti che appaiono come creati ad hoc, come nella gif già descritta) che rivela volontariamente la consapevolezza di fare qualcosa di importante e di storico.
Tale consapevolezza dei propri mezzi e dell’importanza della storia che si porta dietro (con rivelazioni che non erano mai state diffuse prima) è il vero punto di forza di questa docu-serie, che non esita ad auto-compiacersi ma, allo stesso tempo, non dimentica di compiacere lo stesso pubblico a cui è rivolta svolgendo così anche una funzione di edutainment.
Allo stesso tempo però si tratta di un racconto molto onesto e che non ricerca necessariamente il guilty pleasure dello spettatore. Molti sono i momenti in cui viene fuori anche il lato oscuro della personalità di Jordan, il quale viene descritto nei suoi meriti ma anche nei suoi difetti caratteriali. Quello che ne viene fuori è certamente una personalità complessa e sfaccettata, che non necessariamente potrà risultare “simpatica”. Ma il fascino della pellicola sta anche in questa dualità del personaggio che accetta comunque di mettersi a nudo di fronte alle telecamere come mai nessun altro sportivo aveva fatto finora, perfino mostrando quei momenti più “umani” e privati che cozzano irrimediabilmente con la figura super-eroistica che un prodotto del genere comporterebbe altrimenti (come nelle immagini dello sfogo post-partita dopo la morte del padre).
The Last Dance è una serie dunque innovativa nel suo genere poiché non si limita a descrivere una stagione particolare focalizzandosi su una squadra e un giocatore eccezionali. Si tratta su una lunga dissertazione filosofica, composta da immagini d’archivio e interviste, su una visione precisa del mondo e dello sport. Ed è questa la sua più grande eredità per quanto riguarda il mondo dell’audiovisivo in generale. Qualcosa per cui tutte le docu-serie che verranno da qui in poi dovranno, per forza di cose, almeno confrontarsi.
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