Questo primo maggio è arrivata su Netflix la seconda serie ideate e prodotta da Ryan Murphy (con Ian Brennan ), dopo The Politician, Hollywood, una miniserie, ambientata nella Hollywood dell’epoca d’oro dove la storia viene riscritta per dare risalto a sogni, speranze e ribalta alle minoranze che vivevano all’epica. Ovviamente, la serie cita personaggi storici (e in alcuni casi ne riscrive la biografia), ma si concentra su un gruppo nuovo per sviluppare una trama interessante, d’intrattenimento che però non soddisfa appieno lo spettatore. Un omaggio al Grande Cinema dell’Epoca d’Oro di Hollywood di Murphy che infarcisce la serie di numerosi elementi interessanti che caratterizzano le sue produzioni.
Sette episodi (di circa 50-55 minuti cadauna) per raccontare di un gruppo di giovani attori, un regista e uno sceneggiatore che tentano di avere successo nella Hollywood del post Seconda Guerra Mondiale. Terra dove i sogni si possono avverare e dove tutti possono diventare delle stelle, il gruppo si trova a lottare per emergere in un sistema fatto di squali che manipolano la loro diversità (colore della pelle, etnia e orientamento sessuale) per ottenere i propri scopi. Ad accomunare i giovani sarà il progetto “Peg” che tratta di una giovane donna che sogna di diventare una star ma che alla fine si getta dalla celebre scritta Hollywood.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Hollywood si appresta a vivere una grande epoca d’oro dove l’arrivo di grandi registi europei (emarginati e scappati negli USA a causa dei regimi totalitari in Europa) contribuisce a dare linfa al settore cinematografico, portando il settore ad avere enorme successo. Nella realtà, molti attori, autori e registi hanno dovuto “nascondere e reprimere” il loro essere pur di lavorare nell’industria del Cinema per paura di essere banditi. La serie tocca questo argomento offrendo a simili personaggi una ribalta, una sorta di redenzione dove possono esprimere il loro vero io, senza vergogna, restrizioni o scherno. In Hollywood tale “privazione” viene resa molto bene dalla figura dell’agente Henry Wilson, omosessuale, che in privato si concede, di nascosto, tutte le privazioni che desidera, mentre al lavoro cela la sua indole. Questa serie invece riscrive la storia proponendo una rivoluzione che dia una piega definitiva al cambiamento che la rinascita hollywoodiana doveva realmente compiere in quegli anni. Già perché il sistema era in piena evoluzione (dopo quella del sonoro di qualche decennio addietro) e si apprestava ad una svolta definitiva. Tuttavia, questa rinascita non prese mai una piega cosi rivoluzionaria e pertanto queste minoranze vennero schiacciate o offuscate da una coltre di nubi. Quindi, per lo show, Hollywood è l’emblema delle pari opportunità, il vero cambiamento dell’industria del settore (che in realtà si sta compiendo in queste ultime decadi). Un punto di arrivo, un faro all’orizzonte da inseguire per poter esprimere il proprio essere e realizzare i propri sogni in maniera genuina, lavorando su sé stesso senza reprimere la propria natura per emergere.
Hollywood racconta tutto ciò in maniera provocante, esagerata in modo dall’intrattenere il pubblico contemporaneo, ambientando la storia in un passato per raccontare il cambiamento odierno nel sistema d’intrattenimento dove le minoranze stanno finalmente ottenendo il loro meritato successo senza restrizioni. Murphy, attraverso la miniserie, sogna una Hollywood inclusiva dove ognuno può sentirsi rappresentato e sentirsi meno soli vedendo un film o una serie che tratti del suo mondo. Che possa offrire una ibridazione tra intrattenimento e riflessione, offrendo a tutti una possibilità di ribalta. Hollywood offre tutto ciò sovvertendo tutti gli stereotipi dell’epoca d’oro del Cinema per far emergere le minoranze e portare una riflessione sull’attualità. Il classico “parlare del passato per creare dibattito su tematiche d’attualità”. Una critica sociale alla società che in questa miniserie offre spunti onesti, genuini, seppur forzati e con sentimenti positivi. Ovviamente, nel creare una storia dove i buoni vincono sempre e dove tutti “vincono”, narrativamente ci sono delle forzature ma ciò che è importante in questa miniserie è il modo in cui si lavora sul testo, sulla riscrittura e su come siano stati sovvertiti i cliché di Hollywood.
All’interno della miniserie ci sono tantissime citazioni a opere cinematografiche (dirette o non), Un uomo da marciapiede, American Gigolò su tutte e riferimenti ad attori esistiti nell’epoca. Infatti, l’opera è quasi meta-cinematografica in quanto incorona il Cinema come potente forma d’arte d’espressione in grado di incanalare sogni di generazioni. L’importante della narrazione all’interno di un sistema imponente in grado di autocitarci, di criticarsi e di riflettere su se stesso, proponendo un rinnovamento dietro l’altro.
A livello narrativo, la miniserie utilizza come collante la pellicola immaginaria “Peg”, un costrutto diegetico che altri non è uno stratagemma che altri non è la speculare storia dei protagonisti della stessa Hollywood. Pertanto l’opera continua a dialogare sia internamente che esternamente, al suo pubblico “interno” che “esterno” (a casa), proponendo una storia autoreferenziale. Meta-narrazione ben strutturata che sfrutta un mcguffin intelligente e in linea con la storia narrata.
Come fece Quentin Tarantino in C’era una volta a Hollywood, anche questa serie utilizza elementi reali della Mecca del Cinema Americano per delineare una storia dai buoni sentimenti, dove viene riscritta la Storia per creare una sorta di favola e “correggere” errori del passato. Se il film di Tarantino si soffermava a omaggiare l’inizio della New Hollywood riscrivendo una delle pagine più dark di Hollywood, trasformando un incubo in una favola con tanto di lieto fine (e con un finale quasi splatter-trash), Hollywood di Murphy si concentra a dare voce e risalto alle minoranze che furono enormemente emarginate dal settore cinematografico dell’epoca (Anni Quanta e Cinquanta). Il primo è un classico “What if” dove l’unica cosa che si discosta dalla realtà è il finale, mentre Murphy reimmaginata la storia di Hollywood fornendo una futuristica svolta, anticipando tematiche dell’oggi per rielaborarle al passato. Tuttavia, nonostante le enormi differenze e lavorano su piani differenti, entrambe parlano di sogni e di emarginati. Già perché il mito hollywoodiano è il sinonimo di “Sogno”.
Ci sarebbe tanto da dire su quest’opera in quanto è atipica nel panorama seriale contemporaneo, ma nel suo complesso è un buon prodotto televisivo. A livello narrativo non tutto fila liscio e spesso, in particolare nelle ultime puntate, il troppo ottimismo e la riuscita completa dei propri protagonisti disturbano e rendono l’opera quasi una burla. Se C’era una volta in Hollywood spiazzava lo spettatore proponendo un finale sorprendente e “atipico” per Tarantino, Hollywood con il suo “win-win” propone una buona storia fine a se stessa che non riesce a colpire appieno lo spettatore. Ci sono scene forti e ci sono “rivoluzioni” ma sembra quasi una sorta diletto meta-narrativo, di esperimento non riuscito appieno. Tuttavia, la durata limitata e la buona struttura narrativa, rendono la miniserie godibile e d’intrattenimento.
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