Il rapporto fra letteratura e cinema di uno dei più grandi scrittori del 900.
Il 16 aprile 2020 si è spento, nella sua casa ad Oviedo, lo scrittore e attivista politico Luis Sepúlveda.
Giornalista, poeta e autore di romanzi e racconti noti in tutto il mondo, Sepúlveda è stato uno dei più grandi narratori del 900, in un’esistenza tutta improntata all’attivismo politico e sociale. Nato infatti in Cile, dovette ben presto scappare da questo paese a causa del regime del generale Pinochet. Da questo momento in poi lo scrittore ha dovuto passare l’intera sua esistenza in giro per il mondo, cosa che non gli ha impedito comunque di continuare nella sua attività politica e di scrittura.
Anzi, proprio da queste esperienze in giro per il mondo sono nati capolavori come Un nome da torero, Patagonia Express e Diario di un killer sentimentale che mischiano narrazione di genere, esperienze reali e attenzione verso l’attualità e il mondo contemporaneo.
Altrettanto interessante è il rapporto che Sepúlveda ha avuto anche con il mondo della settima arte, un rapporto spesso tralasciato dalle biografie e agiografie letterarie ma comunque molto importante, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto “narrativo” delle sue storie e che merita sicuramente un approfondimento.
“Mi considero un figlio del mondo dell’immagine, un figlio del cinema. Il mio primo grande riferimento culturale è sicuramente il cinema. Soprattutto se penso che sono cresciuto in Cile, un paese che ha conosciuto la televisione soltanto nel 1962, il che vuol dire che ho passato i primi tredici anni della mia vita molto vicino all’unica e la migliore forma di conoscenza del mondo, che era il cinema. Poi ho sempre avuto un interesse molto forte sia come spettatore che come studioso.”
(da un’intervista a Ciak-Magazine)
In effetti gli esempi di uno stile “cinematografico” nella sua scrittura non mancano. Tutta la letteratura di Sepùlveda si basa sulle immagini, già a partire dagli incipit diventati famosi:
«Banco di aringhe a sinistra!» annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo.
Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l’oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c’era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe?
(Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare)All’autista del “Lucero de la Pampa” si illuminarono gli occhi quando vide la sagoma del cavaliere sul ciglio della strada. Erano cinque ore che teneva le pupille inchiodate sulla carreggiata diritta, e l’unica distrazione che ricordava erano un paio di nandù che aveva spaventato con il suo clacson stridente. Davanti aveva la strada. A sinistra la pampa coperta di graminacee e arbusti di calafate. A destra il mare, che attraversava con il suo incessante mormorio d’odio lo Stretto di Magellano. Nient’altro.
(Un nome da torero)
Le immagini nel racconto prendono quasi sempre vita grazie a delle sinestesie in cui lo scrittore “rende vivi” anche elementi non umani come il paesaggio la vegetazione, che sembrano compiere delle vere e proprie azioni rendendo così “via” la descrizione delle singole scene. Il tutto però in un’ottica prettamente reale e “documentaristica” svolgendo esattamente lo stesso lavoro che farebbe la macchina da presa. Sepùlveda si fissa su dettagli, che a mano a mano (come in una carrellata cinematografica) si allargano di significato dando un’idea del mondo in cui ci troviamo e assurgendo ad immagini-simbolo di tutto ciò che verrà descritto successivamente nella storia.
È indubbio come l’educazione cinefila del giovane scrittore cileno abbia contribuito molto nella creazione di questo stile di scrittura che fonda narrazione e cinema.
Ma andiamo ora ad analizzare l’effettiva produzione cinematografica del regista per vedere come in essa questi due mondi siano strettamente intrecciati fra loro.
REGISTA E SCENEGGIATORE
L’esordio alla sceneggiatura per Luis Sepúlveda è datato 1986 con il film Vivir a los 17, tratto da un suo stesso racconto.
Scritto in collaborazione con Maria Victoria Menis e Gabriel Wainstein, il film, di produzione argentina, è un racconto di formazione che vede come protagonista la giovane Andrea, adolescente ribelle di 17 anni nell’Argentina degli anni 70, in perenne contrasto con i propri genitori. Sullo sfondo la vita e le contraddizioni della società argentina di quegli anni.
“Parla della solitudine e dell’incomprensione nell’adolescenza e di come puoi trasformare un progetto di vita in un progetto di morte a causa del problema (precisamente) del malinteso. […] Questo film è l’anti-video clip, perché volevo fare qualcosa che fosse soggetto a ciò che sta accadendo […] senza cadere nella mediocrità.” (tratto dal saggio Un diccionario de films argentinos, Manrupe-Portela, 1996, Ed. Corregidor).
Per la sua seconda collaborazione come sceneggiatore bisogna però aspettare il 2000 con un’altra produzione cileno-argentina, il film Terra del Fuoco (Tiera del fuego) del regista Miguel Lettìn. La storia, sceneggiata da Sepúlveda insieme ad un team di scrittori tra cui spicca anche il nome dello sceneggiatore felliniano Tonino Guerra, è tratta dal racconto breve di un altro storico scrittore cileno, Francisco Coloane.
Il racconto è la storia epica della resistenza, da parte della popolazione indigena alla fine dell’800, nei confronti di Julius Popper (Jorge Peruggoría), avventuriero, esploratore e principale responsabile del genocidio della popolazione nativa dei Selk’nam. Un film molto diverso da tutti gli altri che compongono la filmografia dello scrittore, sontuoso e sfarzoso nella sua ricostruzione storica e più affine al gusto del biopic hollywoodiano. E tuttavia non privo di quei temi già cari a Sepúlveda come la causa ambientalista, i diritti umani e l’attenzione verso le culture e le popolazioni indigene. La pellicola, presentata nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes di quell’anno, vede inoltre la partecipazione di alcuni interpreti italiani: Ornella Muti, Omero Antonutti e un giovane Claudio Santamaria.
Il vero e proprio esordio di Sepúlveda come sceneggiatore e regista tout court però è il film Nowhere del 2001. Si tratta di una commedia satirica ambientata in un generico paese sudamericano (comunque riconducibile alla patria dello scrittore) in cui il dittatore locale, per farsi bello di fronte all’opinione pubblica, decide di far rapire cinque uomini, suoi nemici politici (un omosessuale, uno studente, un barbiere, un operaio e un professore), per poi liberarli in maniera plateale sotto gli occhi dei media. Ma un ex militare degli Stati Uniti (interpretato da Harvey Keitel) intuisce il suo piano e fa di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote.
Una storia allo stesso tempo tragica e comica in cui vengono evidenziate, in maniera metaforica ma allo stesso tempo molto reale, le contraddizioni della società sudamericana. Una società dove non esiste una linea netta fra “buoni” o “cattivi” ma in cui semplicemente ognuno insegue un proprio cinico interesse. Il tutto condito da situazioni sempre più surreali in un climax di comicità crescente dato soprattutto dai personaggi principali che si comportano sempre come una sorta di macchiette di loro stessi.
Il film è una co-produzione italo-spagnola e vede, tra i nomi del cast, oltre al già citato Keitel, gli attori italiani Luigi Maria Burruano e Caterina Murino, ed è impreziosito dalla colonna sonora di Nicola Piovani.
Questa pellicola è inoltre disponibile in versione integrale, doppiata in italiano, sulla piattaforma YouTube.
La vena giornalistica di Sepúlveda, invece, è stata ben espressa nel corto-documentario Corazonverde del 2002. La pellicola (co-diretta dallo scrittore e regista cileno Diego Meza) è un viaggio in uno di luoghi preferiti dello scrittore: la Patagonia, già protagonista di numerose sue opere. Nei suoi 30 minuti di durata, il film è un’intervista, compiuta dagli stessi registi, agli indigeni del posto. Questi sono impegnati in una battaglia legale contro una multinazionale che vorrebbe impiantare nel loro territorio una fabbrica di alluminio, il che sarebbe un disastro per l’ecosistema a causa delle scorie tossiche che verrebbero rilasciate nel fiume che attraversa la zona.
Un atto d’accusa, per nulla imparziale, contro lo sfruttamento delle risorse e il capitalismo, ma anche contro lo stesso governo cileno, complice di questa iniziativa, come dichiarato dallo stesso autore.
Anche in questo caso la pellicola è una co-produzione (stavolta fra Spagna e Cile), ed è stata presentata alla 59esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori.
ADATTAMENTI
Non bisogna però dimenticare gli adattamenti cinematografici che sono stati fatti delle stesse opere dello scrittore cileno. Oltre al già citato Vivir a los 17, l’adattamento più significativo è sicuramente il film Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, tratto dal romanzo omonimo.
Il film del 2001, diretto dal regista Rolf De Heer (lo stesso di Bad Boy Buddy) vede fra gli interpreti gli attori Richard Dreyfuss, Timothy Spall e Hugo Weaving.
Il protagonista della vicenda, Antonio Bolivar (Dreyfuss) è un anziano cacciatore che vive nel paesino sudamericano di El Idilio, isolato da tutto e da tutti, con la sola compagnia di alcuni romanzi rosa, l’unica sua passione. Un giorno viene incaricato di uccidere una femmina di tigrillo che sta uccidendo le persone del posto poiché in preda al dolore per la perdita dei propri cuccioli.
Il film si presenta dunque come un originale road-movie in cui la ricerca della femmina di tigrillo diventa, per il vecchio cacciatore, l’occasione per fare un check-up della propria esistenza e affrontare alcuni traumi che lo riguardano personalmente.
Così la pellicola, mascherata da semplice film natural-horror, è in realtà un viaggio esistenziale nei ricordi e nei misteri di un uomo singolare, intrecciati naturalmente alla storia e alla descrizione naturalistica del paesaggio amazzonico, con i suoi riti folklorici e la sua natura incontaminata e magica.
Anche questo film è disponibile sulla piattaforma Youtube (in versione originale con sottotitoli in spagnolo).
IL CASO “LA GABBIANELLA E IL GATTO”
Se si parla però di adattamenti cinematografici delle opere di Sepùlveda non si può prescindere da quella che è forse l’opera più nota, a livello mondiale, dello scrittore cileno: la favola ambientalista Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, da cui, nel 1998 è stato tratto il film d’animazione La gabbianella e il gatto.
Quello che, ad oggi, è il film d’animazione italiano con il più alto incasso di sempre (12 milioni di lire all’epoca), è un’opera scritta e diretta dal regista Enzo D’Alò (già autore de La Freccia Azzurra e della serie di cartoni animati de La Pimpa).
Liberamente tratto dall’opera di Sepùlveda del 1996, il film narra le avventure del gatto Zorba la cui vita viene sconvolta quando Kengah, una gabbiana accidentalmente contaminata dal petrolio fuoriuscito da una nave-cargo durante una tempesta, cade rovinosamente sul suo giardino e muore. Non prima però di aver deposto l’uovo che portava in grembo e aver strappato al gatto tre promesse: non mangiare l’uovo, averne cura finché non si schiuderà e insegnare al nascituro a volare.
Se le prime due promesse però sono facili da eseguire, la terza è praticamente impossibile e al povero gatto Zorba non rimarrà che chiedere aiuto ai suoi amici gatti per riuscire a risolvere l’intricata situazione.
Con il pretesto della “semplice” fiaba per bambini Sepùlveda, e di converso lo stesso D’Alò, mettono in scena un’originale storia di formazione intrisa di grandi tematiche e insegnamenti morali. Tra questi il tema dell’ambientalismo (vero leitmotiv di tutta la produzione artistica dello scrittore cileno) ma anche il tema dell’integrazione, il rispetto per la diversità, l’amicizia… temi che ancora oggi rimangono impressi nella mente e nel cuore dei vecchi e nuovi spettatori.
La pellicola si avvale inoltre di un cast tecnico e artistico di tutto rispetto che vede tra i doppiatori originali attori di un certo calibro come Carlo Verdone (Zorba) e Antonio Albanese (il Re dei Ratti) nonché lo stesso Sepùlveda nei panni del Poeta che fa anche da voce narrante all’intera vicenda.
Per non parlare poi della colonna sonora, curata dal musicista David Rhodes, che include i brani, diventati fin da subito iconici dell’intera pellicola, So Volare, interpretato da Ivana Spagna, e Siamo Gatti, composta dal cantautore Samuele Bersani.
Un film disegnato con una tecnica volutamente artigianale, lontana dagli esperimenti di tecniche d’animazione in CGI che all’epoca andavano per la maggiore, ma che, al contrario, fa della semplicità il proprio punto di forza, con un uso molto morbido delle linee e con i colori accesi che richiamano quelli dei colori-pastello. Questa scelta stilistica fa sì che la pellicola sia un prodotto unico e riconoscibile nel suo genere, adatto sia ad un pubblico di bambini ma anche ad un pubblico più “adulto”, e aprendo così la strada a quelle che saranno tutta una serie di prodotti made in Italy che a questo genere si rifaranno negli anni successivi.
La gabbianella e il gatto ha quindi il merito di aver reso ancora più popolare il romanzo di Sepùlveda riadattandolo, ma senza snaturarlo, dal materiale originale.
È sicuramente il lascito più grande di questo straordinario scrittore nonché un perfetto esempio di collaborazione fra letteratura e mondo del cinema.
La pellicola è disponibile nel catalogo Netflix e in questo caso appare quasi d’obbligo una sua visione!
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