Colour out of Space segna il ritorno di un regista forse troppo presto dimenticato e poco considerato come Richard Stanley. Tornato dall’esilio cinematografico vissuto dagli anni ’90 (ad esclusione di cortometraggi e mediometraggi), il regista di Hardware (1990) dirige la trasposizione cinematografica dell’omonimo racconto di H. P. Lovecraft. Di influenze lovecraftiane nel cinema ne abbiamo viste tante, tuttavia è sempre rimasta la difficoltà nel voler rappresentare direttamente le opere dello scrittore di Providence, in quanto la domanda che ci si pone è sempre la stessa: come rappresentare l’irrappresentabile? Negli anni abbiamo avuto qualche rappresentazione dei suoi racconti in cui l’orrore è più visibile, quindi più cinematografico, come Dagon o Re-Animator.

In questo caso Stanley porta al cinema proprio un racconto, tra i più conosciuti, in cui l’irrapresentabile è protagonista. Perno della vicenda è la caduta di un meteorite sulla Terra, portando con se un particolare colore sconosciuto all’occhio e alla percezione umana. Lo stesso andrà ad infettare tutto quello che lo circonda, espandendosi sempre più e creando mostruosità di ogni tipo. Per cercare di provocare nello spettatore un senso di straniamento e alienazione, Stanley ha utilizzato lens flare e tutte le possibili tonalità di viola, unite a flash, filtri, esplosioni di colore e chi più ne ha più ne metta. Era effettiamente impossibile realizzare quello che lo stesso scrittore da cui è tratta l’opera definisce “non definendolo”, ma qui il regista è comunque riuscito a creare qualcosa di particolare e d’effetto, che ricrea, almeno in parte, quel senso di inquietudine straniante necessario alla vicenda.

Menzione va fatta anche per quanto riguarda gli elementi più mostruosi della pellicola. Inizialmente viene usata la computer graphic, in seguito, però, col procedere degli eventi vengono utilizzate tecniche più vicine agli anni ’80, con una scena di chiarissimo rimando (e omaggio) a La Cosa di John Carpenter.

In più, va aggiunta la presenza di un sempre più folle Nicolas Cage, reduce dall’esperienza di Mandy ma, qui, meno ingombrante, con una follia che ti aspetti ma che sale passo dopo passo fino ad un’apparentemente quieta esplosione. Abbiamo capito che, ormai, questa è la parte che gli riesce meglio negli ultimi anni, dandogli quella libertà di “creare” pazzia senza troppi freni, seppur, in questo caso, leggermente più contenuto rispetto al già citato Mandy.

Colour out of Space rappresenta, quindi, un’importante tassello nella scena degli horror degli ultimi anni, dimostrando che l’orrore adulto e di qualità, anche se meno commerciale, può e deve dire la sua in un panorama spesso monotono e piatto. Inoltre rappresenta un primo e importante passo nel proporre le opere di Lovecraft al cinema, fuori dal contesto dei B-Movies e tentando la sfida del cercare di trasporre scritti cinematograficamente difficili da rappresentare. E’ già, infatti, in lavorazione l’adattamento de L’orrore di Dunwich, sempre firmato da Stanley. Dopo questo film possiamo stare certi che l’opera è in buone mani.

 

 

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