Nel 1977 la televisione americana mandò per la prima volta in onda Fantasy Island, nota in Italia come Fantasilandia. Trasmessa fino al 1984, la serie aveva come elemento centrale una remota isola governata dal misterioso Mr. Roarke, che concedeva a tutti i visitatori di realizzare i propri sogni una volta giunti sul luogo. Blumhouse Pictures, celebre per i suoi film horror di grande successo, porta questo soggetto sul grande schermo facendolo dirigere a Jeff Wadlow e declinandolo in una chiave più fantastica e orrorifica, in linea con le altre opere della casa produttrice. Roarke è qui interpretato da Michael Peña, mentre tra gli interpreti dei visitatori possiamo trovare Maggie Q, Lucy Hale, Austin Stowell, Jimmy O. Yang e Ryan Hansen.
Le premesse sulle quali si poggia il film hanno permesso di creare un numeroso insieme di storie, in sostanza una per ogni ospite dell’isola. Tali racconti sono tutti diversi per natura, finendo quindi per diversificarsi anche nel genere. Abbiamo il torture porn di Melanie (Hale), la party comedy di Brax (Yang) e Bradley (Hansen), il dramma romantico di Elena (Q) e il film di guerra di Randall (Stowell). Tutto si intreccia inevitabilmente con la macrotrama dal tono spiccatamente più horror rispetto a quello che caratterizzava la serie originale. Fantasy Island è perciò assimilabile a una grande vetrina nella quale molti prodotti diversissimi tra loro finiscono a coesistere.
Non è la prima volta che in anni recenti si assiste ad un thriller-horror dalla simile struttura. Particolarmente degni di nota sono i due film diretti da Drew Goddard: Quella casa nel bosco (2012) e 7 sconosciuti a El Royale (2018), il primo dei quali riconosciuto dalla stessa Blumhouse come influenza diretta nella concezione di Fantasy Island. Ognuno dei due prendeva un genere come riferimento (horror per il primo, thriller per il secondo) e metteva in scena una serie di variazioni sul tema in modo da dare origine a un variegato affresco narrativo. La loro natura portava a spingere naturalmente il pubblico verso una riflessione riguardo il genere che li caratterizzava, e ciò rappresentava un loro grande punto di forza.
Fantasy Island tenta di ripetere l’esperimento, ma a differenza dei due film citati non riesce a centrare il bersaglio. Il motivo sta proprio nell’eccessiva diversità tra le storie rappresentate. Se i film di Goddard prendevano elementi limitatamente al loro genere di riferimento, Fantasy Island mette insieme quadri narrativi troppo diversi tra loro per poter formare un’opera coerente. Il discorso sul genere e sulle sue molteplici forme finisce quindi per non avere luogo, lasciando la sgradevole sensazione che emerge quando si percepisce uno spreco di potenziale.
Al di là del discorso metafilmico appena preso in analisi, resta comunque la trama generale fantasy/horror ad occupare la gran parte del film. È questo il principale pregio di Fantasy Island: lo sviluppo procede tra numerosi colpi di scena e momenti di dramma, oltre che di introspezione dei protagonisti. Anche qui tuttavia il terreno è accidentato. Troppo spesso il tono generale cambia, anche a causa nell’enorme numero di eventi che accadono e ciò finisce, ancora una volta, per rendere incostante tutto il percorso effettuato dalla storia. La sensazione di fretta è avvertibile fin troppe volte e questo purtroppo penalizza il risultato finale.
Forse tutti i difetti dei quali si è scritto finora sono riconducibili a un unico aspetto: la pretenziosità. Risulta chiaro come Fantasy Island cerchi di essere tante cose allo stesso tempo: un remake rivisitato, un racconto ricco di plot twist, un crocevia tra generi in grado di spaventare, divertire e commuovere allo stesso tempo. Nel suo voler essere tutto questo, Fantasy Island ne esce zoppicante, non riuscendo a portare a compimento nessuno dei tanti sentieri che esplora. Lo scarsissimo successo di pubblico e critica che sta ricevendo è forse una reazione eccessiva, specie considerando quanto in questi anni si incensino film altrettanto mediocri o addirittura peggiori. È tuttavia proprio l’insuccesso la conseguenza naturale per un film che ha voluto puntare troppo in alto e ha finito per schiantarsi a terra sotto il peso della sua superbia.
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