Le vicende narrate in La ragazza d’autunno del giovanissimo Kantemir Balagov sono quelle di Iya, “Giraffa”. Siamo nella Leningrado del 1945, tra spazi e persone che cercano di riprendersi dai drammi della guerra appena conclusa. Iya, congedata dal fronte anni prima con un figlio da accudire, lavora come infermiera. Il figlio però non è suo, ma di Masha, che al ritorno dalla guerra lo trova morto e ne esige un altro.

Prima ancora che le immagini svelino lo scenario in cui stiamo per addentrarci, l’elemento, il primo, attraverso cui entriamo in contatto con la pellicola è il respiro sforzato e affannato di Iya in preda a uno dei blocchi nervosi che la colpiscono periodicamente. Respiro che lega da subito lo spettatore alla condizione della ragazza: un senso di solitudine, isolamento, instabilità e soffocamento che viene mantenuto per tutto il film anche dalle serrate riprese a spalla che non lasciano respiro ai personaggi e alle situazioni.

Nonostante il film si articoli in modo ampio e abbracci diversi vissuti paralleli – tra cui quello di Stepan, soldato rimasto paralizzato che ci rivela chiaramente il sentimento comune provocato dalla guerra, quando flebilmente dice di non essere più una persona – il nucleo della narrazione è la storia delle due ragazze, entrambe in lotta con una sorta di mancanza.

Iya, dopo aver causato la morte del bambino, sente di aver perso l’unico legame che la teneva unita a Masha, la sola persona che sente vicina. Masha, a sua volta, dopo le sofferenze della guerra in cui è sopravvissuta più in quanto corpo femminile piuttosto che persona, necessita di ritrovare il lato umano di se stessa ed è convinta che una nuova vita possa in un certo senso dare nuova fiamma anche alla sua.

La mancanza che accomuna le due protagoniste è quella vitale ed empatica: entrambe – e forse l’abbraccio finale ne è la chiave maggiormente rivelatrice – sentono la mancanza di una persona con cui poter provare di nuovo affetto, una persona di cui prendersi cura, qualcuno che ridia un senso alle loro esistenze, soprattutto dopo aver scoperto entrambe di essere “inutili” all’interno.

I personaggi del film cercano di riprendere il controllo della propria vita, o, per lo meno, di ricrearsene una. Stepan sceglierà quindi l’eutanasia. Sarà la stessa Iya a dargli la morte, in una scena di grande comprensione e rispetto. Per l’uomo l’unico modo per reimpugnare la propria vita è aprirsi alla morte, per dire basta ad anni trascorsi cercando di evitare di perire nelle vesti di una pedina, una fine a cui si scampa quasi solo per fortuna; anni di timore e assoluta incertezza, conseguenza di scelte e progetti esclusivamente di altri. La scelta di morire in quanto persona, marito e genitore, non più come strumento.

Il film trasporta nel passato altre tematiche forti e tuttora attuali, prima su tutte la gestazione per altri, di cui Balagov ci dà una rappresentazione intensa e angosciante. Lo spettatore, che è legato fin dall’apertura a Iya e che vive come una svolta destabilizzante e dagli esiti incerti l’ingresso in scena di un personaggio di poche parole e risoluto come Masha, assimila il tentativo di concepimento obbligato attraverso la disperazione e la costrizione che vive la “Giraffa”, personaggio invece più fragile e corruttibile.

Tutto questo attraverso una regia che rende palpabili i contrasti cromatici tra un rosso sanguigno e un verde speranza che strutturano tutto il film e che si concentra nella resa iperrealista e densa degli interni, nella creazione di un mondo chiuso e confidenziale, in cui gli animi prostrati dal conflitto vengono indagati con lentezza e profondità, dando il giusto peso ai silenzi, agli sguardi, ai non detti, la cui attribuzione di significato e interpretazione emotiva spetta allo spettatore, che si trova in questo modo ulteriormente agganciato allo sviluppo emozionale del film.

Resta impressa, tra le tante scene suggestive e ricche di contenuti, una giravolta gioiosa di Masha in un abito verde che non le appartiene, giravolta a cui sembra aggrapparsi fino al morboso. Un vestito che Masha prenderà in prestito per recarsi in visita ai genitori del fidanzato, ulteriore tentativo fallimentare di ricostruzione del proprio futuro. Un abito dal colore vibrante, che la ragazza accarezza e ammira e che la cala temporaneamente nella libertà e nella spensieratezza che spetterebbero a una ragazza della sua età, ma che la guerra le ha portato via, lasciando sia lei che Iya in una stagione liminare, né vive né morte, in autunno.

Ilaria Zaccariello 

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata