Qualche giorno fa sullo streamer Netflix è stato pubblicato il nuovo film di Steven Soderberg, Panama Papers. Si tratta di una pellicola focalizzata sul noto scandalo finanziario che ha messo in luce attività fraudolenti sul riciclo di denaro.

Soderberg continua la sua fase sperimentale proponendo un lungometraggio atipico nella forma e nell’intreccio narrativo, dove il costante abbattimento della quarta parete gioca un ruolo fondamentale all’interno della diegesi. Un dialogo rivolto all’interno e all’esterno per creare un canale comunicativo diretto con lo spettatore per far capire i difficili meccanismi finanziari al centro del film. Questa modalità di racconto, insieme ad una costruzione per capitoli, oltre a rendere più comprensibile le dinamiche economiche, serve per dare ritmo ad una pellicola che altrimenti avrebbe potuto incartarsi nella spiegazione dei contenuti. In questo modo, lo scandalo diventa pop, accattivante e dal ritmo incalzante. Una costruzione narrativa simile alla celebre pellicola “La Grande Scommessa” di Adam McKay.  In questo caso, il regista e lo sceneggiatore Scott Z. Burns optano per la sintesi e puntando sulla denuncia del sistema finanziario alla base dello scandalo.

I due narratori all’inizio del film introducono la vicenda e spesso intervallano la narrazione fornendo spiegazioni economiche allo spettatore. Tuttavia, questi non sono puri “intermezzi”; man mano che la narrazione prosegue si svelano le identità dei due e le loro figure acquisiscono maggior peso all’interno della storia. Da marginali narratori a protagonisti assoluti della vicenda. Una costruzione narrativa a scatole cinesi che mischia realtà e finzione. Una formula elusiva che serve a denunciare e prendere posizione verso un sistema. Difatti, molte delle storie presenti nel film servono a confondere, eludere lo spettatore dai principali protagonisti e sono vuote nei contenuti.

A livello di genere, la pellicola è improntata sull’autoironia e sulla commedia. Ci sono intense parti drammatiche ma il cuore pulsante è la costante presa in giro verso il sistema e verso coloro che hanno orchestrato la frode. Ridere di, per e con loro.

Se “La Grande Scommessa” offriva una narrazione sofisticata e originale della bolla immobiliare che causò una forte crisi economica optando per una narrazione diretta con lo spettatore e con un ritmo accattivante, Panama Papers prosegue su quel filone proponendo una pellicola ritmata, divertente che però nei contenuti si rivela non sempre all’altezza. Spesso vuota e incentrata su protagonisti furtivi e poco sviluppati che non permettono la creazione di empatia. Poche scene e sequenze memorabili. La storia si rivela esile e seppur sia interessante dal punto di vista della sperimentazione narrativa, i contenuti sono sterili e sono sviluppati sull’ironia e sulla denuncia. Poco convincente sotto molti punti di vista, tuttavia la sintesi e il ritmo “Pop” permettono a Panama Papers di essere godibile e di intrattenere fornendo nozioni interessanti.

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