Carissimi lettori assetati di sangue,
come vi avevo anticipato nello scorso numero di questa rubrica, le proposte horror degli ultimi tempi sono state davvero allettanti e infatti, in questo caldissimo agosto, si sente parlare di ben due horror italiani: un evento più unico che raro!
I due film in questione sono The Nest di Roberto De Feo e Il signor Diavolo di Pupi Avati ed entrambi stanno stimolando un vivace dibattito tra i cinefili.
Avati non ha certo bisogno di presentazioni, poiché gravita nel mondo dell’orrore da oltre 40 anni e ci ha regalato capolavori come La casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore, mentre De Feo è al suo primo lungometraggio.
ATTENZIONE: SPOILER!
The Nest, uscito in sala il 15 agosto, è ambientato in una tenuta nel cuore del bosco, Villa dei Laghi, dove vive il quattordicenne Samuel, paralitico, insieme alla madre Elena, la servitù e un medico inquietante di nome Christian. Samuel cresce in una campana di vetro, la sua educazione è molto rigida e monotona e non gli è permesso avere nessun contatto col mondo esterno, perché troppo pericoloso. Tutto cambia quando alla villa arriva la quindicenne Denise, una ragazza indipendente, ribelle e matura, che invece in quel mondo ci ha vissuto e sofferto. L’amicizia (e l’attrazione) tra Samuel e Denise rompe inevitabilmente l’equilibrio fatto di divieti e imposizioni e il desiderio di scoperta e libertà spingeranno il ragazzino a trovare delle risposte e, soprattutto, una via d’uscita.
The Nest è una vera perla, uno di quei film che non ti aspetti: regala da subito un’atmosfera autenticamente lugubre, è girato bene, è scritto altrettanto bene ed è recitato in maniera eccellente, ma nel finale riesce persino a sorprenderti con un colpo di scena davvero ben assestato, un omaggio in piena regola a M. Night Shyamalan (che del plot twist è maestro indiscusso). L’isolamento forzato e la paralisi – anch’essa forzata – di Samuel, infatti, sono l’unico modo per tenere il ragazzino al sicuro dagli esseri terrificanti (davvero terrificanti!) che hanno contaminato l’umanità.
L’atmosfera oscura e decadente della villa, il suo arredamento austero e la sua posizione isolata sono certamente il primo punto a favore di questo film, perché sospendono la vicenda nel tempo e nello spazio: non è possibile, inizialmente, comprendere in che epoca ci troviamo, anche perché i personaggi indossano abiti démodé, ma in un secondo momento vediamo Denise ascoltare un iPod e capiamo che molto probabilmente si tratta di uno “strano” presente. La tenuta, oltretutto, non presenta riferimenti che possano ricondurre il tutto a una precisa ambientazione geografica. In generale, dunque, la location è il primo elemento di smarrimento.
A confondere e risucchiare in maniera decisiva lo spettatore è però l’abilità di De Feo (insieme a Lucio Besana e Margherita Ferri) nel comporre la sceneggiatura, disseminata di ambiguità e di allusioni, di indizi sparsi qua e là che alla fine delineano un quadro chiaro ma tutt’altro che completo, che lascia volontariamente in sospeso alcuni interrogativi. Per intenderci, ritroverete molto di The Others e The Village, espliciti riferimenti del regista, ma anche di Wayward Pines.
Una nota di merito, come già anticipato, va agli interpreti, a partire dai giovani Justin Korovkin, acerbo ma di spessore, e Ginevra Francesconi, disinvolta e decisa come la sua Denise, per finire con una sorprendente Francesca Cavallin, che mi ha ricordato la figura tragica di Serena Joy di Handmaid’s Tale, e un meravigliosamente pazzoide Maurizio Lombardo, che nei panni del dottor Christian omaggia un po’ Kubrick e un po’ The Human Centipede.
Vi innamorerete, infine, della splendida versione al pianoforte di Where is my mind?.
All’opposto, con una ben precisa collocazione spazio-temporale, si apre Il signor Diavolo di Avati, in sala dal 22 agosto: siamo negli anni Cinquanta, la guerra è finita da poco e alle prossime elezioni i Democristiani non possono permettersi di perdere. Dal Ministero di Grazia e Giustizia, il giovane ispettore Furio Momentè viene inviato in un paesino delle campagne venete per investigare su un caso di omicidio e possibilmente insabbiare il coinvolgimento della sfera ecclesiastica locale, cosa che potrebbe influenzare negativamente i voti. Un ragazzino del posto, Carlo, suggestionato dal prete e da una suora ha infatti ucciso Emilio, un suo coetaneo affetto da deformità fisiche e disturbi mentali, convinto che fosse la personificazione del Diavolo.
Furio, ormai coinvolto nel caso, scoprirà una serie di eventi macabri e sanguinolenti, ma purtroppo non potrà tornare indietro per raccontarli.
Avati s’ispira al proprio vissuto, alle proprie paure infantili, e trae il lungometraggio dal suo omonimo romanzo, pubblicato l’anno scorso; la storia raccontata è perfettamente in linea con la sua poetica horror, secondo la quale il Male si annida in ovunque, ma specialmente nella superstizione religiosa e nell’intolleranza nei confronti del diverso. Quale luogo migliore, per ospitarlo, delle decadenti e tetre comunità rurali dove le tradizioni contadine, la paura e il fanatismo si trasformano in violenza e barbarie e dove il Diavolo, cui si deve un servile rispetto, viene addirittura denominato “signore”. Ed Emilio, tanto simile fisicamente al maiale da suscitare disgusto e tanto disturbato da uccidere la sorellina neonata, incute timore a chi gli si trova accanto ma allo stesso tempo è oggetto di un certo sentimento reverenziale, a causa di strani eventi sovrannaturali che sembrano essere causati da lui.
Non ci è dato da sapere se la questione sia reale o frutto di ignoranza e suggestione, ma ciò che è certo è che ficcare il naso in certe faccende significa rischiare davvero grosso.
Il gotico padano di Avati omaggia sé stesso (anche con alcuni volti ricorrenti, come Lino Capolicchio e Gianni Cavina) e riprende vita con lucidità, dopo lungo tempo, per riproporci un immaginario tetro e inquietante, dove l’ambiente inospitale è contornato da una fotografia così desaturata da sfiorare i toni del bianco e nero, come in un vecchio album dei ricordi.
Il signor Diavolo avrebbe potuto funzionare del tutto se il ritmo degli eventi non subisse un’improvvisa accelerazione. Se nella prima parte, infatti, la vicenda viene ricostruita con grande attenzione per il dettaglio (a partire dalla lettura del fascicolo), nella seconda ho avvertito un ritmo più incalzante, fumoso, quasi frettoloso, che non permette di assorbire al meglio il tutto, ma che si salva in corner con l’abile mossa del finale. Ne risentono anche i (tanti) personaggi, dei quali non si fa in tempo a condividere le motivazioni. In sostanza, mi sarebbe piaciuto che il film durasse qualche minuto in più (evento più unico che raro!).
Ma cosa unisce questi due film così apparentemente diversi tra loro? Innanzitutto la rappresentazione, come detto poco fa, di un immaginario gotico che il cinema horror italiano ha accantonato molto tempo fa: chiese, castelli, dimore diroccate, ville dai mille segreti nascosti, anfratti oscuri e giochi d’ombra, come all’interno del migliore repertorio del Maestro Mario Bava negli anni Sessanta, dominano nella parte scenografica e si fanno teatro di vicende che, diversamente, avrebbero perso molto della loro carica orrorifica e suggestiva.
In secondo luogo, è interessante scoprire che, sebbene le due opere abbiano alle spalle due background agli antipodi, giungano entrambe alla conclusione che il Male non è ciò che sembra, può trovarsi in ogni luogo o dove meno ce lo aspettiamo: una riflessione vecchia come il mondo, certamente, ma che è più che mai attuale in questa nostra epoca di progresso, ma ancora troppo densa di paure più o meno razionali.
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