Il nuovo film di Wim Wenders è una maniera inedita di trattare il tema dell’ambientalismo.
I film di Wim Wenders (regista pluripremiato di Il cielo sopra Berlino e Paris, Texas) si sono sempre caratterizzati per una ricerca stilistica e narrativa che trascende le normali categorie di “fiction” e “non-fiction”.
Spesso, infatti, queste vengono mescolate fra loro distaccandosi tra i normali confini di genere.
Submergence è il 23esimo lungometraggio del regista tedesco, tra quelli cosiddetti “di fiction”. Ma l’appartenenza a questo genere di narrativa cinematografica è dato dal solo fatto che la storia è tratta dal romanzo omonimo dello scrittore inglese J.M. Ledgard. Per il resto l’uso della macchina da presa, la fotografia e molti dei dialoghi presenti rimandano certamente al genere “non-fiction”.
La narrazione delle vicende diventa, infatti, un mero pretesto per parlare di ambientalismo (tema caro al regista) e di tematiche esistenziali, di cui il romanzo di Ledgard già si faceva portavoce. L’acqua è il fil rouge che tiene unita tutta la narrazione, in un andirivieni tra flashback e flashforward che richiama esattamente al movimento delle onde dell’Oceano Atlantico, quelle che fanno da sfondo alla storia d’amore tra il soldato James More (James McAvoy) e la bio-matematica Danielle Flinders (Alicia Vikander).
Lui è impegnato in una delicata missione di spionaggio sotto copertura in Kenya per catturare uno dei leader di Al-Qaeda. Lei si sta preparando ad affrontare un’importante impresa sottomarina nello strato più profondo dell’Oceano (“la parte più buia e inesplorata”) che potrebbe permettere discoprire molte cose per lo sviluppo della vita e la rigenerazione del mare.
Entrambi i personaggi quindi, si accingono a intraprendere missioni molto rischiose e pericolose, per cui potrebbero non fare più ritorno a casa. Nel frattempo però, ospiti di un albergo che si affaccia sulle coste della Normandia, trascorrono le loro giornate rilassandosi, facendo la reciproca conoscenza e, infine, innamorandosi.
La storia d’amore tra i due co-protagonisti del film è l’asse portante di tutta la narrazione. La struttura da thriller-feuilleton, inoltre, è sicuramente l’aggancio giusto per una storia che vuole essere più che altro una riflessione sui cambiamenti climatici e le risorse in esaurimento del nostro pianeta (tema sottinteso di tutto il film) ma con un tono che non vuole essere affatto “pedagogico”.
Per questo scopo risulta fondamentale la scelta degli attori protagonisti, e bisogna dire che da questo punto di vista la scelta è stata pressoché ottima. I personaggi sembrano essere stati modellati apposta per i due attori protagonisti, con cui hanno ben più di un tratto in comune con la loro vita reale. La stessa Vikander, infatti, è una nota ambientalista (come dimostra la sua partecipazione anche al documentario Anthropocene – The Human Epoch), mentre McAvoy prima di intraprendere la carriera artistica ha svolto servizio presso la marina militare britannica. Sembra quasi ovvio che il background degli attori si rispecchi nei personaggi rappresentati, a cui questi aggiungono una caratterizzazione e una psicologia uniche nel loro genere.
Senza dubbio la chimica che si crea tra i due è il principale motivo d’interesse della storia e ciò che crea più empatia nei confronti del pubblico. Lo sviluppo “thrilleristico” che prende poi la narrazione è un ulteriore aggancio per tenere incollato lo spettatore alla visione del film.
Per il resto il film pecca (forse) di un’eccessiva lentezza dovuta all’eccessiva attenzione verso il percorso evolutivo dei due, carico di simbolismi e di dialoghi meta-filosofici che, a tratti, rischiano di appesantire il tutto.
L’ intento pedagogico del film verso le questioni ambientali non viene affatto nascosto, anzi viene rimarcato in maniera abbastanza evidente. Il che sacrifica però l’aspetto spionistico della vicenda, quello relativo alla “questione terroristica” (forse quella più da “fiction”, presente nella pellicola) che qui viene trattato in maniera un po’ troppo superficiale, salvandosi solo grazie all’interpretazione di James McAvoy.
Non uno dei film meglio riusciti per Wenders, dunque, ma una pellicola di cui si avverte comunque la sua inconfondibile impronta autoriale. Questa è bene evidente nella fotografia accurata e ricercata e nell’uso della macchina da presa che passa dall’uso di steady-cam iniziale (in pieno stile documentaristico) a primi piani che risaltano la mimica dei due protagonisti. E, infine, nelle musiche suggestive e cariche di pathos, a cura del compositore Premio Goya Fernando Velàzquez.
L’uscita del film è prevista nelle sale italiane per il 22 agosto 2019. Si tratta certamente di una buona occasione (approfittando del periodo estivo) per scoprire l’ultima opera di uno degli Autori (con la A maiuscola) degni di nota del cinema contemporaneo. Un film che, pur con tutti i suoi difetti, cerca una maniera interessante per far passare il proprio messaggio, giocando con i generi della fiction e toccando le corde empatiche dello spettatore.
Sicuramente un’ottima occasione anche per ammirare un paesaggio straordinario (quello dell’Oceano Atlantico e delle coste del nord della Francia) immergendosi nelle luci e nei colori che la telecamera di Wenders riesce a catturare con una maestria unica.
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