Miei cari amanti del macabro,
anche se con un po’ di ritardo, desidero parlarvi di un film che mi ha piacevolmente sorpresa e mi ha regalato due ore dense, oscure e soddisfacenti: Pet Sematary di Kevin Kölsch e Dennis Windmyer, seconda trasposizione dell’omonimo romanzo di Stephen King del 1983.
Devo dire che di questo film mi aveva già solleticato il trailer ma sappiamo bene quanto sia facile, in questi casi, provare quel sentimento ambivalente di aspettativa e sospetto (bisogna credere al trailer? O pensare che tutte le cartucce siano state sparate in un paio di minuti?). Il tutto si amplifica ulteriormente quando si tratta di horror. E figuriamoci poi quando l’oggetto in questione è un remake horror.
Ecco, a tal proposito voglio spendere due paroline: l’ambivalenza di cui sopra – dove generalmente è il sospetto a prendere il sopravvento – è una croce che noi horror maniaci portiamo da sempre. Sentiamo parlare di remake, di sequel, di prequel, spesso palesi operazioni di marketing, e storciamo il naso, ci diciamo che è la solita cazzata e che in qualche modo sarà un insulto all’illustre pellicola di partenza, poiché spesso si scomodano i Classici. Blasfemia pura!
Ma, per contro, volete mettere la sensazione di piacere che si prova nel dare una chance a un remake e uscire dalla sala soddisfatti? È raro, ma succede. Esistono infatti le forme migliori di remake, ovvero quegli atti filologici (passatemi il termine) in piena regola che desiderano rispolverare un film, donargli una nuova forma e riprendere temi/personaggi/sottotrame non sufficientemente sfruttate per generare nuove storie. Se questo intento deriva dalla pura cinefilia, il risultato può essere soddisfacente se non eccellente.
In parole povere: un remake horror è una sfida che spesso fallisce, poiché non regge il confronto con l’originale, ma se l’aggiornamento è fatto con criterio (e amore) risulta vincente. Questo concetto, a mio avviso, vale ancora di più con titoli di nicchia o poco conosciuti, con del potenziale ancora inespresso.
Ebbene, questo è esattamente ciò che è successo con Pet Sematary, che definirei in tutto e per tutto un restyling di Cimitero Vivente di Mary Lambert (1989), scritto, interpretato e dunque benedetto da King, ma che, ahimè, è rimasto un titolo piuttosto sconosciuto al grande pubblico. Caratterizzato da una bella atmosfera creepy e malinconica, il film della Lambert aveva purtroppo diversi punti deboli, come la recitazione scarsa, la regia poco curata e i dialoghi non proprio da Oscar, che finivano per appiattire la vicenda; per contro, il piccolo zombie Gage è davvero una perla, un personaggio indimenticabile che ha dato il suo notevole contributo alla sempreverde schiera di bimbi cattivi nel cinema. Bisogna inoltre aggiungere che questo film, che senza dubbio porta a termine l’obiettivo di intrattenere, fornisce materiale prezioso da cui attingere: in sostanza, miei cari, per Pet Sematary un remake andava fatto.
La trama resta sostanzialmente uguale: il dottor Louis Creed lascia Boston per andare a vivere in un paesino di campagna del Maine insieme alla famiglia, la moglie Rachel e i figli Ellie e Gage. Nel verde in cui è immersa la nuova casa, si trova un piccolo cimitero per animali, dove i bambini del posto sotterrano i loro compagni di giochi. Ma poco lontano da questo luogo si nasconde qualcosa di ben più macabro e spaventoso: un cimitero indiano dove a quanto pare, secondo l’anziano vicino di casa Jud, chi viene seppellito torna in vita.
A questo punto, il film fa una brusca, semplice ma super incisiva svolta rispetto al suo predecessore: se nel film della Lambert, come da romanzo, era Gage a morire in un incidente e poi ritornare in vita per uccidere gli adulti, qui è la piccola Ellie a subire questo infausto destino. La bambina, che nell’89 era una mocciosetta petulante e poco “utile” ai fini della trama, in questa nuova versione diventa sveglia, intelligente, curiosa, nonché vero e proprio fulcro della vicenda, sia a livello narrativo che filosofico, ed è dunque giusto che sia lei a rappresentarne l’elemento perturbante (nel senso freudiano del termine). Davvero, non mi aspettavo questa scelta e l’ho trovata azzeccatissima. Nel suo periodo di vita, Ellie diviene infatti spesso la testimone, o la causa scatenante, della diatriba dei genitori sul concetto di accettazione della morte; se da una parte Louis, uomo di scienza, spiega razionalmente la caducità della vita alla figlia, Rachel mostra un atteggiamento censorio, quasi aggressivo, non solo perché contraria al parlare di certi argomenti ai bambini, ma anche perché visibilmente tesa nell’ascoltarli.
Se però inizialmente siamo portati a sostenere le argomentazioni di Louis, secondo il quale è normale che ogni cosa giunga a una fine, capiamo che Rachel ha i suoi buoni motivi per temere la morte, poiché traumatizzata dalla scomparsa della sorella Zelda. Oltretutto, quando la tragica fine di Ellie toccherà anche Louis in prima persona, il suo atteggiamento cambierà radicalmente e non riuscirà a lasciarla riposare in pace. Avverrà una reazione a catena a partire dal ritorno del gatto Church, prediletto di Ellie, che Louis riporterà in vita per evitarle una sofferenza. Oltretutto, il nuovo finale aperto espande quello del suo predecessore, suggerendo un conseguente “ritorno” di tutti i Creed.
Se dunque le dinamiche della famiglia, illustrate collettivamente e individualmente, mostrano i due punti di vista principali rispetto al concetto di rassegnazione/accettazione, il personaggio di Jud (un sempre fantastico John Lithgow) si dimostra altrettanto efficace nel descrivere la difficoltà nel lasciar andare via ciò che non è più; è infatti proprio lui, vecchio solitario e trasandato, a mostrare il cimitero indiano a Louis, nel quale aveva pensato, anni addietro, di seppellire l’amata moglie.
Al netto del rispolvero delle succitate dinamiche familiari e della psicologia individuale (che ho trovato ben curata e verosimile), ho molto apprezzato questo film anche dal punto di vista estetico, poiché piacevolmente patinato, caratterizzato da una fotografia splendida, ottimamente dosata nelle luci e nelle ombre. Inoltre, ho semplicemente adorato la nebbia densa e avvolgente che domina gli spazi cimiteriali – potrà sembrarvi banale ma, non so come, sono riusciti a renderla un elemento evocativo, onirico, quasi seducente, più che spettrale. L’unico neo che posso individuare è la quasi totale assenza del personaggio di Victor Pascow, che qui appare solo un paio di volte, mentre nel primo film faceva quasi da guida spirituale a Louis ed era piuttosto significativo in alcuni punti.
Se dunque desiderate finalmente vedere un remake che non solo non vi lascerà delusi ma che vi strapperà anche un paio di “wow!” spontanei, vi consiglio caldamente questo piccolo gioiellino, che a mio avviso vale la pena anche solo per la poetica scena della processione dei bambini mascherati: che siano più capaci loro, rispetto a noi adulti, di accettare la vita nella sua interezza?
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