The Iron Throne, dopo otto anni e altrettante stagioni, chiude Game of Thrones. L’episodio, scritto e diretto dagli showrunner David Benioff e D. B. Weiss, prosegue sulla stessa discutibile linea che ha caratterizzato i precedenti e smentisce diverse situazioni ipotizzate in precedenza, fallendo nella maggior parte dei casi a costruirne di migliori.
Dopo una battaglia campale come quella vista in The Bells, come di consueto è necessaria una chiusura basata sul dialogo. L’episodio è infatti costruito su diversi momenti che risolvono i destini di molti personaggi e della stessa geopolitica del Continente Occidentale. Molte scelte però sembrano forzate o perfino insensate. Come in The Bells, basta nominare un qualunque personaggio principale per trovare un’incongruenza che lo riguardi. Alcune scelte di trama finiscono addirittura per contraddire la natura stessa dei capisaldi della serie: la sorte riservata ai Guardiani della Notte è un esempio particolarmente risibile per tutto ciò che implica la loro riorganizzazione, ma sfortunatamente è solo uno tra i tanti.
I toni stessi di The Iron Throne spesso appaiono eccessivamente sopra le righe o fuori contesto. Dall’aria di soap opera che si respira in vari momenti topici si passa a scambi di battute al limite del farsesco. Riunioni nelle quali dovrebbe essere deciso il destino di un enorme territorio diventano teatro di battute quasi imbarazzanti, che spezzano il clima di tensione e compromettono quelle che dovrebbero essere sequenze solenni ed epiche. Qualche uscita umoristica ogni tanto centra il bersaglio, anche ammiccando alla nostra realtà; non è in ogni caso sufficiente a risollevare una sceneggiatura così zoppicante.
Nel bene e nel male, The Iron Throne firma la morte della magia. Game of Thrones era iniziata come una serie di stampo realistico nella quale gradualmente veniva inserito l’elemento fantasy, in dosi sempre maggiori. Nella stagione finale abbiamo visto scomparire, in un modo o nell’altro, la maggior parte di questa magia: il Re della Notte e la sua armata di non-morti, i draghi di Daenerys, Melisandre la Donna Rossa, il quasi immortale Gregor Clegane ed altro ancora. Quel che è rimasto è un Continente ormai praticamente libero dal sovrannaturale, nel quale i problemi di un ambiente simile all’Europa feudale andranno risolti con le corrispondenti modalità. Il tutto alla fine è una testimonianza del fatto che in un mondo come il nostro, coerentemente con la cupa impostazione tipica del franchise, non c’è spazio per la magia.
Allo stesso tempo, diviene centrale l’idea di leggenda. Lo strumento tramite il quale Benioff e Weiss la concretizzano è la metanarrazione. Come nei lavori di Tolkien, colonne dell’high fantasy, anche qui vediamo l’opera che si manifesta all’interno della narrazione stessa. Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, saga letteraria di George R. R. Martin dalla quale è tratta la serie, appaiono nella stessa sotto forma di un omonimo libro, nel quale le gesta dei protagonisti saranno custodite negli anni a venire. Come è ormai chiaro da tempo infatti, i personaggi di Game of Thrones hanno compiuto un cammino che li ha portati da semplici esseri umani a future leggende. Il motivo per il quale viene scelto il nuovo erede al Trono di Spade sta proprio nella storia che lo ha caratterizzato. Come lettori e spettatori si affezionano a personaggi dal grande spessore narrativo, così il degno re del Continente dovrà distinguersi per la grandezza della storia alle sue spalle; una storia che, per antichità e importanza, è già leggendaria per gli stessi protagonisti.
Un omaggio a tali idee metanarrative è alla base della chiusura di questo articolo. Game of Thrones negli anni ha percorso una via verso luoghi densi di negatività e fallimenti; in contrasto, gli elementi positivi enunciati negli ultimi paragrafi di questa recensione vogliono fungere da termine ad un cammino speculare, dal male verso il bene. Davvero un peccato che un fenomeno televisivo di così importante non abbia seguito un percorso simile.
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