Difficult Women

Nell’ultimo decennio non c’è stata serie diventata poi iconica che non fosse incentrata su un personaggio del tipo che lo scrittore Brett Martin definirebbe “a difficult man”[1]. Tony Soprano, Don Draper, Walter White…tutti loro e molti altri sono i front men dello squadrone degli antieroi.  Sono personaggi le cui azioni sono deprecabili, spesso illegali, altrettante volte pericolosamente a cavallo tra ciò che si definisce morale e ciò che invece non lo è. Uomini difficili, caratteri difficili, eppure li amiamo. E non solo: facciamo il tifo perché trionfino sempre, anche a scapito della felicità (e della vita) di altri personaggi ben più raccomandabili – e, ammettiamolo, più meritevoli – di loro. 

L’anti-eroe è il protagonista della stragrande maggioranza delle nostre esperienze seriali, sempre pronto a farci sentire “giusti” nel nostro essere fallibili e pieni di casini quotidiani: è l’uomo del momento. Appunto, l’uomo. E le donne in tutto ciò?

Tra tutti quelli di noi che si sono posti questa domanda ci deve essere stata anche Phoebe Waller-Bridge: inglese, ad un primo sguardo un po’ preppy girl, se non fosse che è la mente e il volto dietro la serie geniale Fleabag – un mix esplosivo di dark humor e introspezione psicologica femminile – e della più recente Killing Eve, serie dell’anno 2018 per il Guardian – nonché oggetto di questo articolo. Per chi di voi non l’avesse vista faccio un breve recap della trama, per poi fare qualche riflessione un pochino più approfondita sul perché, a mio parere, il Guardian (così come gran parte della critica di settore) ci abbia preso, eccome.

Killing Eve segue le vicende di Eve Polastri (interpretata dalla arcinota Sandra Oh), analista dell’MI6 in un momento di ristagno della sua carriera. Nessun figlio e con un marito che – in teoria – non dovrebbe sapere di che si occupa nella vita, Eve freme dalla voglia di mettere a frutto la sua brillante e caparbia intelligenza. Quando una serie di omicidi di personalità di spicco attira l’attenzione dell’intelligence britannica, Eve vede la sua occasione di riscatto. Dietro a quelle morti inusuali, così fantasiose nell’esecuzione, c’è Villanelle (Jodie Comer), spietata assassina psicopatica ma dal volto angelico – un’arma che sa usare con maestria. Lontana dalle profondità russe dove è nata, Villanelle vive ora la vita dei suoi sogni in un enorme appartamento parigino, pagata a peso d’oro per i suoi servizi da un’organizzazione misteriosa. Eve inizia a sospettare che ad eseguire gli omicidi sia una donna, ma il suo superiore liquida l’ipotesi. Lei però non è disposta ad arrendersi e diventa sempre più ossessionata da questo sicario donna straordinariamente abile. Nel frattempo, anche Villanelle viene a conoscenza dell’esistenza di Eve e ne è affascinata. Con il procedere della serie, cresce esponenzialmente l’ossessione delle due protagoniste l’una per l’altra, che si caleranno in un gioco alla Prova a Prendermi dove humor irriverente e tensione saffica scardinano i tropi del genere spy uno dopo l’altro.

Il mio nome non è Bond, James Bond

Che non si tratta della solita spy story lo capiamo subito dal modo in cui la Waller-Bridge sceglie di presentarci Eve per la prima volta: la protagonista si sveglia in piena notte, urlando. Il marito Niko, che dormiva accanto a lei, si sveglia di soprassalto e cerca di calmarla. È un classico, direte voi. Avrà avuto un incubo dovuto ad un trauma irrisolto del suo passato che riuscirà a superare solo alla fine della serie. Insomma, il solito. Ma quando Niko le chiede cosa sia successo, lei risponde: “I fell asleep on both my arms”. Niko resta un attimo interdetto. “I’m sorry, it was scary”. Questo è Killing Eve.

Alcuni dei più quotati autori di crime hanno eletto la serie tra le migliori dell’anno sul blog The Killing Times, tutti concordi nel riconoscere che Killing Eve non è uno show come gli altri: “The tone for me was set in the opening scenes with the line: «Turns out people are still murderous bastards on the weekend»[2], scrive Olivia Kiernan, in riferimento alla scena (nel pilot) della riunione last minute a cui Eve e i suoi colleghi si precipitano di sabato mattina. Tutti in pesante dopo sbornia, tutti in ritardo. L’ultima ad arrivare ovviamente è Eve. La quale si fa, per altro, notare dal capo mentre cerca di recuperare un pezzo di croissant da una busta che crepita rumorosamente.

Nel mondo di Phoebe Waller-Bridge non c’è spazio per chi si prende troppo sul serio: “However bleak a situation they are in, none of the characters passes up the opportunity for a gag” scrive Lucy Mangan[3] per il Guardian. Il mix irresistibile di elementi discordanti che compongono Killing Eve, ne fanno un prodotto “so very, very human and so very, very funny”[4]. Come lo era Fleabag, d’altronde, dove la protagonista era impegnata costantemente a sdrammatizzare qualsiasi situazione pur di non affrontare faccia a faccia il suo dolore.

“Why not have some fun?”

Non è tanto la parte della “caccia” in sé a rendere intrigante la serie, semmai la sua capacità di immortalare momenti di incredibile realismo quotidiano, restituendo quella weirdness che ognuno di noi sperimenta tutti i giorni facendo discorsi imbarazzanti con il proprio partner (“How would you murder me?” chiede di punto in bianco Eve ad un sempre più attonito Niko), o vivendo il lavoro come una spiacevole incombenza che solo un cornetto caldo recuperato di straforo al mattino può rendere più sopportabile. Cose normali. Strambe ma vicine, familiari.

L’altro aspetto, tutt’altro che trascurabile, che si discosta dai diktat del genere spy è rintracciabile nel fatto che il dualismo detective/killer veda due donne fronteggiarsi ai lati opposti delle barricate. Come osserva la stessa Comer, “If you look at other shows, it is always male-female; male killer, female detective” – e female victim, aggiungerei; “It’s strange how, if you put two women in those roles, the narrative shifts”[5] e si imposta su un registro più introspettivo, da psychological drama.

La matrice di Killing Eve è letteraria, quindi bisogna riconosce che parte del merito vada, in primis all’autore. Lo scheletro dello show si è costruito, infatti, sul romanzo breve Codename Villanelle scritto da Luke Jennings, autore inglese e critico di danza per il Guardian. Il racconto originale resta più legato alle caratteristiche del genere spionistico, ma contiene già i prodromi che, tra le altre cose, fanno di Killing Eve un prodotto pienamente contemporaneo. L’intenzione di Jennings era già in partenza quella di approcciarsi al genere del thriller di spionaggio da un’angolazione del tutto nuova:

“Today’s male thriller heroes are, almost without exception, humourless bores. […] All that embittered whisky drinking and late-night jazz. All that technology fetishism. Why not turn the genre on its head? I wondered. Why not have some fun?”[6]

Con queste premesse, Phoebe Waller-Bridge è stata una scelta naturale: “The producers wanted the tone of Fleabag to enforce the potential of Jennings all-female spy story”[7], dichiara Sandra Oh in una intervista rilasciata a ridosso della release del pilot.

Sovvertendo generi e gender

A fronte di un plot piuttosto convenzionale, l’irriverenza della showrunner lavora per far emergere ancora di più le due figure al centro della storia, fino a dare vita due personaggi stratificati, umani e verosimili: “Villanelle is not constantly the femme fatale” continua la Oh, “she is devious and ridiculous” così come “Eve is not the character of a procedural [tv show], just hunting down a killer. The characters are layered [and cover] a wide range of emotions”[8]. La compresenza di aspetti caratteriali in conflitto racchiusi in una stessa personalità le rendono due donne emotivamente e caratterialmente autosufficienti, che agiscono pienamente all’interno del racconto. Non a caso, la stampa di settore ha definito senza mezzi termini Killing Eve come uno show di impronta femminista. Entrambe le protagoniste ruotano attorno al proprio centro del desiderio, motore degli eventi, e agiscono unicamente per sé stesse. Nessuna delle due esiste in funzione degli uomini che le circondano.

Prendiamo Eve, per esempio. Il legame con il suo capo, Bill, esula dalle normali gerarchie d’ufficio: Bill è stato il suo mentore, una figura paterna, ma ci viene suggerito subito che forse l’allieva ha già superato il maestro. E le carte in tavola vengono scoperte quando Eve è chiamata ad indagare off record su Villanelle: i ruoli si ribaltano e diventa lei il superiore di Bill. Ancora più emblematica, in questo senso, è la relazione di Eve con Niko. Se consideriamo gli stereotipi legati ai ruoli della coppia, ci accorgiamo che di fatto Niko è la ‘moglie’, tra i due, e non il contrario: essenzialmente casalingo, sempre ai fornelli, mentre lei lavora nel suo studio; maestro del non detto, la maggior parte delle volte che parla lo fa sempre per esprimere un qualche tipo di preoccupazione. Inoltre, ogni suo discorso avviene, curiosamente, dalla camera da letto o dalla cucina. Non proprio le stanze più “maschili” della casa, per come la TV ci ha abituato per decenni.

Niko è uno di quei personaggi appartenenti alla categoria needy boyfriends, ovvero “handsome, perfectly nice, kind men who are just slightly too weak to satisfy their women”. Siamo abituate ad averci a che fare nella vita reale, ma vederli rappresentati sullo schermo è rinvigorente e apre nuove possibilità nella costruzione di personaggi femminili realistici. È anche grazie ad un occhio più onesto – e adorabilmente spietato – sul maschile che Killing Eve interroga il tabù della rappresentazione dell’uomo come figura che ha delle debolezze, che può essere insicuro. La Waller-Bridge ci mostra cosa accade se riusciamo per un attimo ad uscire dal tunnel del machismo tossico (per entrambi i generi) e a prenderci gioco degli stereotipi con cui la Tv ci ha insegnato ad essere uomini e donne “ideali”.

L’antieroe donna che mancava

Villanelle non potrebbe essere più lontana dal modello convenzionale di donna, salvo per la sua grazia innata e il fascino innocente che lascia stregati. Resta il fatto che la nostra eroina è una personalità sadica, che si annoia facilmente e rappresenta un pericolo costante per chiunque le stia attorno: “she is weird and interesting, smart and capable… and potentially deadly. She is irresistible”[9]. Signore e signori, ecco a voi finalmente l’anti eroe donna che stavamo aspettando.

Non che prima di Killing Eve la categoria fosse priva di rappresentanti, ma la maggior parte tendevano ad agire per delega, incanalando le proprie pulsioni violente attraverso l’uomo di turno, il quale eseguiva fedelmente i loro desideri mortali. La sanguinaria Cersei Lannister, per esempio, che non si sporca (quasi) mai le mani in prima persona. Questi personaggi sono una ulteriore sfaccettatura del modello classico della femme fatale, rivisto e aggiornato magari, ma che fa eco alla Stanwyck di “La fiamma del peccato”. Un’altra interpretazione dell’antieroina è quella alla Jessica Jones: tormentata, attira-guai e con un passato denso di abusi, traumi ed esperienze che l’hanno segnata e indurita, nonostante la sua natura intrinsecamente buona. Questo tipo di personaggio lo seguiamo con passione, ci immedesimiamo, lo vediamo sbagliare, cadere in pezzi e ricostruirsi ogni volta. Le donne come Jessica Jones le amiamo perché la loro forza sta nell’essere consapevoli della propria fragilità, che le rende paradossalmente resilienti e invincibili.

Villanelle non è una Cersei, quindi, ma nemmeno una Jessica Jones. Come voleva suggerirci la scena delle braccia addormentate di Eve, non c’è nessun incubo che incombe: “Villanelle is not a “tortured soul” who needs to be saved: she is the kind of person who admires the carnage of a shootout for its artistic merits.”[10]

Non c’è un trauma dietro al modo di agire di Villanelle, nessuna terribile verità sepolta che un giorno verrà rivelata e ci darà la chiave per accedere finalmente al cuore delle sue emozioni. Villanelle non ha emozioni, è una sociopatica con notevoli capacità camaleontiche, che grazie ad anni di attenta osservazione riesce a diventare chiunque, a simulare qualsiasi stato d’animo, in un continuo gioco di maschere che sembra non stancarla mai. È un’esteta, una perfezionista e una istrionica performer, e la Comer riesce a muoversi straordinariamente bene entro gli estremi della personalità cangiante del suo personaggio. Quello che rende Villanelle unica è il fatto che sia così imprevedibile, così fuori da ogni convenzione dei classici villain o antieroi, da farci dimenticare che è lei il bad guy della situazione – la bad girl, ad essere precisi – e non vediamo l’ora di sapere cosa escogiterà nel prossimo minuto e mezzo.

“Murder and great outfits. That show is everything I love”[11]

Mandatory Credit: Photo by David Buchan/Variety/REX/Shutterstock (10099846av)
Sandra Oh and Jodie Comer
AMC – BBC America ‘Killing Eve’ TV Show Panel, TCA Winter Press Tour, Los Angeles, USA – 09 Feb 2019

Prima di arrivare alle conclusioni, vorrei aprire una breve parentesi sull’uso della moda in questa serie. Nella costruzione delle protagoniste, l’aspetto visivo ha avuto una parte importante: “Their contrasting aesthetic is key, partly because they define themselves against one another”[12]. Eve è esteticamente definita da quella che Jennings chiama “an incompetence to shopping”[13]. Votata alla praticità e all’uso di pezzi anonimi pescati dalle firme della fast fashion, vorrebbe interessarsi di più del suo stile, ma proprio non le riesce. Se Eve non è mai a suo agio con sé stessa – c’è sempre un dettaglio fuori posto, dai capelli arruffati alle ascelle non depilate prima di una cena elegante – Villanelle veste la sua pelle come un guanto. Amante degli oggetti costosi, spende tutti i suoi soldi in abiti griffati, profumi, biancheria e champagne. Ma non è il tipo da Sex & the City, fidatevi: “It’s not about attracting attention, it’s about feeling glorious and subversive and in control”[14] osserva Morwenna Ferrier nella sua analisi della serie dal punto di vista dello stile. Scegliere il giusto outfit per Villanelle è un rito, parte del processo di camouflage che precede ogni missione. Eve, visto il lavoro che fa, deve essere anonima, facile da dimenticare; al contrario, Villanelle ama essere teatrale e usa la sua femminilità come un’arma per neutralizzare le difese delle sue vittime. La sua passione per la moda è parte integrante del suo arsenale da battaglia.

Eve e Villanelle sono due personaggi, a ben guardare, agli antipodi, l’una rispetto all’altra. Eppure, una forza magnetica sembra impedire che ognuna vada per la sua strada. Questo perché “these two women [are] so polarized that it felt like one of them [is] the shadow of the other”[15].

Forse Killing Eve ci ha reso tutti irrimediabilmente dei bad fan – termine introdotto da Emily Nussbaum[16] per indicare quella fetta di pubblico che cede al fascino di cattivi e antieroi – e ora non possiamo più fare a meno di Villanelle. O forse avevamo bisogno di una boccata d’aria fresca, e di vedere donne per una volta “not merely in relation to the men around them”[17], donne che non si conformano pedissequamente agli stereotipi di genere (e di ruolo). Resta il fatto che grazie alla Waller-Bridge ora non dobbiamo più sforzarci di immaginare come potrebbe essere “an exploration of one woman’s creative desire”[18]: lo sappiamo, è uno spasso. E per fortuna uno di quelli che sta per tornare con una seconda stagione.

 

NOTE A PIE DI PAGINA

[1] Brett Martin (autore), F. Guarnaccia, L. Barra, M. Maraschi (a cura di), Difficult Men. Dai “Soprano” a “Breaking Bad”, gli antieroi delle serie tv, Minimum Fax, 2018.

[2] Olivia Kiernan, in Paul Hirons, “Killing Eve, A very English Scandal and The Bridge: The Crime Writers’ Favourite Crime Dramas of The Year”, The Killing Times, 14/12/2018) https://thekillingtimestv.wordpress.com/2018/12/14/killing-eve-a-very-english-scandal-and-the-bridge-the-crime-writers-favourite-crime-dramas-of-the-year/

[3] Mangan Lucy, “The 50 best TV shows of 2018: No 1 – Killing Eve”, The Guardian, 20/12/2018, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2018/dec/20/best-tv-shows-2018-killing-eve

[4] Ivi.

[5] Zoe Williams, “The chic assassin: Jodie Comer on playing Killing Eve’s Villanelle”, The Guardian, 20/12/2018 https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2018/dec/20/the-chic-assassin-jodie-comer-on-playing-killing-eves-villanelle

[6] Luke Jennings, “Killing Eve: how my psycho killer was brought to life”, The Guardian, 5/08/ 2018

[7] Sandra Oh Discusses “Killing Eve”, 5/4/2018 https://www.youtube.com/watch?v=-ftQeUp018A

[8] Ivi.

[9] Difficult Women: Why We Love Killing Eve’s Psychopath (29/06/2018)

https://www.youtube.com/watch?v=boEh7PekJA8&list=WL&index=41&t=0s

[10] Ivi.

[11] Commento su Killing Eve dell’autrice di romanzi crime Denise Mina, in Zoe Williams, “The chic assassin: Jodie Comer on playing Killing Eve’s Villanelle”, The Guardian, 20/12/ 2018, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2018/dec/20/the-chic-assassin-jodie-comer-on-playing-killing-eves-villanelle

[12] Morwenna Ferrier, “How fashion, both decandent and drab, became the star of Killing Eve”, The Guardian, 2/11/2018, https://www.theguardian.com/fashion/2018/nov/02/how-fashion-both-decadent-and-drab-became-the-star-of-killing-eve

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] Judy Berman, “Killing Eve: The Showrunner and Stars On the Love Story Behind the Sleeper Hit”, The New York Times, 25/05/2018, https://www.nytimes.com/2018/05/25/arts/television/killing-eve-sandra-oh.html

[16] Emily Nussbaum, “The Great Divide. Norman Lear, Archie Bunker, and the rise of the bad fan”, The New Yorker, 07/04/2014  https://www.newyorker.com/magazine/2014/04/07/the-great-divide-emily-nussbaum

[17] Lucy Mangan, op. cit.

[18] Simon Hattenstone,” Phoebe Waller-Bridge: I have an appetite for transgressive women”, The Guardian, 08/09/2018, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2018/sep/08/phoebe-waller-bridge-fleabag-killing-eve-transgressive-women

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