Il rapporto lavorativo tra Tim Burton e la Disney è quanto meno strano. Le due personalità si sono incontrate e separate a fasi alterne nei loro percorsi, creando una sorta di tragitto a doppia elica. Si conoscono a Burbank dove Burton nasce nel 1958 e dove la Disney ha sede legale dagli anni ’30. Si rincontrano quando Burton ha vent’anni: vince una borsa di studio e ha l’occasione di lavorare come animatore nella casa di Topolino (“Era una tortura” dirà poi) e dove girerà i suoi primi due corti, tra cui Frankenweenie, censurato dalla Disney. La conseguente separazione li porta a non incontrarsi più se non dieci anni più tardi: Burton e il suo stile atipico questa volta vincono la scommessa. Escono Nightmare Before Christmas, grande successo di pubblico, ed il bellissimo Ed Wood. Passano altri dieci anni prima del nuovo incontro: Alice in Wonderland rompe qualcosa, però. La critica lamenta una “commercializzazione” dello stile di Burton, che sembra aver perso il suo piacere per il gotico. Ha l’occasione di rifarsi solo un paio d’anni dopo: Frankenweenie diventa un lungometraggio, una sorta di miserere disneyano. Passano sette anni e arriviamo ad oggi, Dumbo.

Il remake live-action dell’elefantino dalle orecchie grandi è la nuova tappa di questi due percorsi, quello disneyano e quello burtoniano. Dumbo è contemporaneamente un’evoluzione ovvia di questi tragitti e qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello che la Disney e Burton hanno prodotto prima.

Per la Disney, Dumbo è l’ennesimo film che ripropone un classico dell’animazione in versione live-action. Questa tradizione, lanciata proprio con Alice in Wonderland, vede il 2019 come anno di punta: oltre a Dumbo, usciranno nel corso dell’anno Aladdin, Il re leone e il sequel di Maleficent. Questo genere di produzione ha creato alcune perplessità: alcuni dei remake già usciti (La bella e la bestia, Il libro della giungla) erano riproposizioni quasi filologiche dei film che già abbiamo visto da bambini. Se è lecito pensare che la Disney stia cercando di guadagnare il più possibile da storie con un immaginario già solido e di successo, è anche vero, però, che il reparto visivo di questi film è strabiliante, un’esuberanza per gli occhi che rende l’uscita al cinema un momento a cui vale sempre la pena partecipare. Inoltre, siamo tutti vittime consapevoli e felici di quest’effetto nostalgia che caratterizza il cinema hollywoodiano contemporaneo e ne gongoliamo allegramente.

Nonostante queste premesse, Dumbo è un film atipico nella sua sostanza. La sua differenza rispetto agli altri remake è dovuta senza ombra di dubbio al film originale: il Dumbo del 1941 è uno dei classici Disney più brevi di sempre (un’ora e quattro minuti) con una sceneggiatura che oggi sembrerebbe tutt’altro che solida. A Dumbo ne capitano di tutti i colori fino a che, a un quarto d’ora dalla fine del film, l’elefante scopre di saper volare, ottenendo così giustizia sociale grazie al successo mediatico. In tutto questo, il protagonista del film è muto. Se è vero che il cinema d’animazione si può permettere di rendere gli animali super-espressivi ed antropomorfi, stessa cosa non si può dire dei live-action Disney. Lo sceneggiatore Ehren Kruger ha dunque stravolto la storia originale, inserendo personaggi umani, una vicenda molto più complessa e togliendo la voce (e i vestiti) agli animali.

La scommessa è stata vinta alla grande. La commozione e la tenerezza originale (che sono gli elementi che hanno reso celebre l’originale) vengono mantenuti e, anzi, potenziati, oserei dire. Mantenendo le scene iconiche (proboscidi di mamma e figlio che si coccolano e conseguenti mari di lacrime), la sceneggiatura prosegue la storia dove finiva col Dumbo originale, con un tema moderno come quello dei rischi e della cattiveria del mondo dello show business. I personaggi umani creano un mondo molto più ampio di quello originale, variegato e divertente. Essi, pur essendo molto più delle semplici figurazioni che erano nel primo Dumbo, presentano alti e bassi nel grado di approfondimento: salvo il bellissimo personaggio di Danny De Vito, i personaggi principali peccano di incoerenza in alcune scelte mentre i personaggi secondari non si allontanano dall’essere maschere più che persone. E diciamolo: il cattivo di Michael Keaton non è male, ma vuoi mettere le elefantesse pettegole del film originale? Quelle sì che erano terribili.

Tornando invece a Burton, Dumbo è l’ennesimo film dall’anima “commerciale”: da Alice in Wonderland, i fan e la critica hanno visto lo stile di Burton cambiare di molto, a favore di film a budget maggiori per un pubblico ampio, abbandonando in parte quei suoi stilemi kitsch, punk e dark che tanto caratterizzavano i suoi film. Allo stesso tempo però, Dumbo è tutt’altro che un film senza anima, anzi. Oltre ad essere ricco di cose da vedere, esso è in realtà pieno di temi burtoniani: in primis, lo stacco che nasce quando l’antico e il moderno si incontrano. Dumbo è un bellissimo omaggio alla ormai morente cultura circense e all’immaginario dell’Ottocento, pallino di molte produzioni contemporanee come Il grande e potente Oz o The Greatest Showman. Il circo viene minacciata dall’arrivo del moderno, simboleggiato da un futuristico luna park, Dreamland (chissà cosa ne pensano i direttori di Disneyland), dove i pupazzi di Dumbo vengono venduti a tutto spiano mentre sua madre viene tenuta in gabbia e malmenata (chissà cosa ne pensano i direttori dei Disney Store). Allo stesso tempo, l’incomunicabilità tra padri e figli viene reiterata più volte e risolta alla fine del film, come in Big Fish o La fabbrica di cioccolato. Viene da sé che i personaggi di Tim Burton come Charlie o Ed Wood sono tutti outsider quanto lo è Dumbo. La parabola della disabilità/dono che caratterizzava anche Edward Mani di Forbice (ma anche Alla ricerca di Dory per rimanere tra gli animali Disney) è qui palese e riproposta anche nel protagonista umano, interpretato da Colin Farrel, monco a seguito della sua partecipazione alla guerra.

Alla fine dei conti, Dumbo è un film molto godibile. Vincente quando è chiamato a riproporre in chiave moderna un film d’animazione invecchiato male. Sincero quando deve mantenere coerenze di stile (come sincero non era per niente Big Eyes, tentativo forzato di Burton di tornare al “suo” cinema). Magnifico quando deve costruire spettacoli visivi. Lacrimoso quanto basta.

 

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