“How the fuck did this happen?”. Questa la domanda impellente a cui Michael Moore, nel suo ultimo documentario Fahrenheit 11/9 (2018), cerca di dare disposta riguardo all’Era-Trump. Era il 9/11/2016 quando Trump venne eletto presidente. Se è vero che la storia è ciclica e si ripete, basta tornare indietro di pochi anni per tracciare un quadro globale chiaro. A posteriori, viene da chiedersi come sia possibile non essersi accorti delle fila che venivano abilmente intessute e che avrebbero intaccato gli equilibri mondiali. L’11/9/2001; una data che funge da vero e proprio spartiacque e che ha inaugurato lo scenario storico e politico del XXI secolo, quello che conosciamo e dei cui effetti disastrosi stiamo avendo assaggio oggi. Ma per riprendere la domanda di Moore, appunto, come si è arrivati a ciò?

Vice – L’uomo nell’ombra, nelle sale italiane dal 3 gennaio e candidato a 6 Golde Globe, narra della silente scalata al potere di Dick Cheney (Christian Bale), personaggio chiave nella politica statunitense, ma che ai più sarà sconosciuto. Iniziata la sua gavetta negli anni Settanta come tirocinante portaborse sotto l’ala protettiva dello spocchioso Donald Rumsfeld (Steve Carell), politico intrallazzone per eccellenza e al tempo Capo Gabinetto della Casa Bianca, Cheney, consigliato fedelmente dalla moglie Lynne (Amy Adams), riuscì pian piano a insinuarsi sempre più nelle dinamiche di potere di Washington DC, fino a diventare superiore del suo stesso mentore e Vicepresidente durante il governo di George W. Bush (Sam Rockwell).

Era Cheney, quindi, il vero burattinaio che da dietro le quinte tirava le fila degli equilibri politici mondiali? Un ferreo repubblicano disposto a sacrificare anche gli affetti più cari per non sfigurare davanti all’opinione pubblica – vera mano invisibile dietro a molte discutibili scelte politiche; una figura priva di carisma dall’apparente aria bonacciona e mansueta, ma dotata di eccellente retorica e fine conoscenza delle manovre politiche; una mente machiavellica, acuta e manipolatrice, che nel tempo ha minuziosamente incastrato tutti i pezzi in modo tale da raggiungere una sorta di potere assoluto “legale”, realizzando un esecutivo unitario sotto il suo controllo.
A diventare, in pratica, l’uomo più potente del mondo. Poco importa poi se non è mai stato nominato Presidente degli Stati Uniti ed è rimasto un “insignificante” Vice (colui che “sta seduto e aspetta che il Presidente muoia”), svuotando de facto i poteri presidenziali. Un irriconoscibile Christian Bale – il trasformista per eccellenza – invecchiato e ingrassato, veste perfettamente i duplici panni dello spietato politico/amorevole padre di famiglia, a sua volta pilotato da un altro burattinaio: l’ambiziosa moglie, interpretata da una Amy Adams meritevole di essere considerata come co-protagonista, che sarà suo devoto braccio destro e vera stratega tra i due.

Se nel 2016 Adam McKay vinse l’Oscar come Miglior sceneggiatura non originale, trattando, ne La grande scommessa, gli antefatti della crisi finanziaria statunitense del 2007 in cui un gruppo di investitori speculatori fu causa di disastrose ripercussioni economiche mondiali, con Vice torna a indagare un altro tema caldo del mondo occidentale: la politica degli Stati Uniti. Lo schema di base è lo stesso, ovvero l’effetto farfalla delle scelte, in cui le azioni egoistiche di un singolo (o di un gruppo di individui) possono essere causa di mali collaterali su scala globale. Con tono scanzonato e sagace McKay fornisce il ritratto tragicomico di un uomo che, assetato di potere personale, ha dirottato e pilotato avvenimenti di portata storica, come l’invasione dell’Iraq nel 2003, scombussolando irrimediabilmente lo scenario politico mondiale. Le scelte non convenzionali di regia e scrittura fanno di Vice un film sui generis, ricco di trovate ironiche e audaci con cui il regista riesce a mettere a nudo e a tratti ridicolizzare alcuni controversi pilastri – pubblicità, manipolazione e disinformazione tra tutti – su cui si basa il Sistema della Prima Potenza al mondo. Lo stile accattivante e pop – quasi sensazionalistico – tra biografia, commedia e satira, chiama spesso in causa lo stesso spettatore, giocandoci insieme, provocandolo e rendendolo consapevole dell’essere anch’egli un ingranaggio nelle logiche di potere, sebbene nel confortevole buio della sala sia facile porsi nei panni del giudice censore.

E se in molti provavamo disprezzo verso Bush Jr. per essere stato un guerrafondaio spregiudicato, con Vice si potrà addirittura avere compassione e simpatia nei suoi confronti: dipinto come uno zotico zimbello che di politica capisce poco o niente, macchietta incastrata negli stessi meccanismi di cui è artefice, già solo questo esilarante ritratto reso da Sam Rockwell basta a rendere soddisfacente la visione. Democratici VS Repubblicani, conservatorismo VS liberalismo, la storia e la politica si ripetono ciclicamente. Non resta che porci l’altra domanda che Moore ha lanciato agli spettatori di Fahrenheit: “How the fuck do we get out?”.

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