L’ultimo film di Olivier Assayas, “Il gioco delle coppie” (in originale “Doubles vies”), sembra avere le carte in regola per rientrare a pieno titolo nei canoni del cinema d’autore: dallo sviluppo di una trama apertamente fittizia, alla trattazione sapiente di tematiche culturali tra le più urgenti e cruciali della contemporaneità, fino all’impiego di una gran diva internazionale- Juliette Binoche- che, ormai alla terza collaborazione con il regista, assume vagamente i contorni dell’attrice-feticcio.

Eppure, se l’ex collaboratore-editore dei “Chaiers du Cinema” può essere legittimamente considerato nel panorama del moderno “cinema d’autore”, ciò che emerge qui ancor più chiaramente rispetto ai film precedenti di Assayas, è la sua natura di critico e teorico cinematografico, ancor prima che di cineasta vero e proprio. Le scelte di regia sono infatti ridotte al minimo e vengono quasi tutte compiute in maniera preliminare: l’utilizzo del 16 mm abbinato ad un effetto-pellicola, la decisione di omettere completamente i dettagli e di abolire, quasi integralmente,  movimenti di macchina ed inquadrature descrittive, in favore di ossessivi campi e controcampi, che ritraggono i personaggi in dialogo continuo.

La sceneggiatura, del pugno dello stesso Assayas, è di fatto l’elemento costituente del film, articolato su uno scambio serrato di opinioni che costringono lo spettatore ad uno sforzo prolungato ed incalzante; in quasi due ore di girato sono presenti pochissimi minuti di silenzio, collocati principalmente nelle scene finali, quando autore personaggi e pubblico vengono chiamati come ad un’ultima riflessione su una lunga ed impegnativa conversazione.

Il complicato intreccio alla commedia degli equivoci unisce, come suggerito dal titolo, due coppie in un rapporto delicato tra amore e infedeltà: un editore esperto ed affermato, Alain (Guillaume Canet), rifiuta al longevo collaboratore Leonard (Vincent Macaigne) la pubblicazione di un libro mascheratamente autobiografico, incentrato sulla clandestina storia d’amore con un’attrice televisiva. Scopriamo successivamente trattarsi di Selena (la Binoche), anche moglie di Alain, che conduce a sua volta una relazione extraconiugale con la giovane, ambiziosa, consulente per la digitalizzazione dell’editoria, Laure (Christa Theret).

Questi personaggi così realisticamente inseriti in una fitta rete di ambiguità ed ipocrisia, rappresentano inoltre le diverse qualificazioni di un problema – quello della dialettica tra il vecchio e il nuovo – che il regista-sceneggiatore si diverte a mettere in relazione tra loro. L’idea non è tanto quella di trovare una soluzione, quanto di esprimere punti di vista opposti e contraddittori, di osservare e raccontare le facce interlocutorie di una realtà in continuo cambiamento. L’incombente smaterializzazione della parola infatti, destinata a trasferirsi dal supporto materiale cartaceo a quello digitale, produce reazioni diversificate nei personaggi: alla paura della novità (di cui si fanno portatori lo scrittore anarchico, contraddittoriamente arroccato su posizioni conservatrici, insieme all’attrice, Selena, ingabbiata nel timore di invecchiare), si oppone dunque la cieca fiducia nel progresso, sostenuta invece dall’ambiziosa imprenditrice, fervente fautrice dell’e-book.

Il baricentro della discussione è costituito dalle considerazioni dell’editore, forse vero rappresentante del punto di vista di Assayas, che si dimostra sì attento e recettivo alla potenzialità delle avanguardie tecnologiche, ma rimane invece scettico rispetto all’eventualità che il cambio di supporto costituisca una rivoluzione tanto radicale anche in termini di contenuti. “Tutto deve cambiare, perché tutto rimanga così com’è”, dichiara Alain in un ultimo scambio con l’amante, citando il principe di Salina.

La metafora cinematografica del prete senza fede che predica in una chiesa vuota, proposta dalla giovane Laure e tratta dalla pellicola bergmaniana “Luci d’inverno”, pone dunque il quesito finale e ribalta un’ultima volta la prospettiva. Se possiamo infatti sovrapporre il sacerdote all’autorialità moderna e l’istituzione della chiesa al mondo dell’editoria, la folla deserta dell’uditorio deve necessariamente coincidere con il pubblico di lettori. Appurato perciò che gli autori contemporanei, pur nel disincanto, continueranno a produrre, che le case editrici, seguendo rigorosamente la logica del profitto, continueranno ad aggiornarsi, resteranno infine i lettori disposti, nonostante tutto, a continuare fedelmente a leggere?

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata