L’ultima fatica dei fratelli Coen è un caleidoscopio a tema western per cui è impossibile non rimanere affascinati.
Come in tutte la favole Disney la prima inquadratura è sempre su un libro, poggiato su un qualche appoggio provvisorio, che servirà come elemento/porta per introdurci in un mondo fatato e magico.
Allo stesso modo si apre La ballata di Buster Scruggs l’ultima fatica dei fratelli Coen, i geniali registi (o regista a due teste, come spesso vengono definiti) creatori di capolavori come Il grande Lebowski, Fargo e Non è un paese per vecchi.
L’ultima fatica del geniale duo di registi è un caleidoscopio musicale in cui vengono affrontati, volta per volta, tutte le possibili declinazioni del genere americano per eccellenza, il western.
Come tutte le opere dei Coen però La ballata di Buster Scruggs è da leggersi su più livelli in quanto esiste una lettura superficiale (quella spettatoriale) e una lettura più profonda che, probabilmente, conoscono solo loro e che possiamo solamente ipotizzare in base a quanto viene visto sullo schermo (grande o piccolo che sia).
Come già detto, La ballata può essere vista come un insieme di racconti, più o meno collegati tra loro, che hanno in comune l’ambientazione western. Un omaggio, dunque, ai grandi cineasti del genere tra cui Sergio Leone (in primis), Sam Peckinpah e John Ford. Ma ogni singolo racconto è anche un omaggio a tanti altri generi cinematografici (dal musical all’horror fino al road movie) che vengono mescolati al western. In questo modo il genere viene, allo stesso tempo, decostruito e rinforzato nei suoi cliché. Si può considerare, dunque, La ballata come l’ultimo tentativo di poter dire qualcosa di nuovo riguardo il mondo degli indiani e dei cowboy, una sua ennesima “evoluzione” contemporanea.
Ma non basta: il gusto per il racconto e il citazionismo si mescola anche a un unione tematica dei vari racconti in cui, di volta in volta, vengono affrontati temi esistenziali sul significato (o i significati) della vita.
Si potrebbe pensare, dunque, a un film filosofico, peccato che poi la brutalità del mondo raccontato dai Coen prende il sopravvento mostrando piuttosto, come in altre loro opere, il non-significato della vita.
Si tratta dunque dell’ennesima presa in giro dei due fratelli ai danni dello spettatore che vuole trovare un significato dietro ogni film.
Le trame mostrate sono immensi giri labirintici in cui inevitabilmente ci si perde e possono essere presi solo per quello che sono. Un labirinto in cui il modello narrativo (prevalentemente occidentale-statunitense) viene ridicolizzato a partire dai propri stilemi (ecco dunque il libro introduttivo, il percorso di formazione…) facendo prevalere così l’intreccio sulla fabula.
Ed è forse questo il significato più profondo e il vero intento dei due fratelli-registi, ma per capire meglio La ballata è meglio entrare dentro il “cuore” delle storie che vengono narrate in essa.
La ballata di Buster Scruggs
La prima delle storie narrate, che dà anche il titolo al film, è quella di Buster Scruggs (Tim Blake Nelson), particolare ed eccentrico pistolero-cantante che viaggia lungo la frontiera contando canzoni in compagnia del fido destriero Sam.
Dietro l’apparenza cartoonesca e ilare del personaggio (messa in evidenza da particolari effetti speciali azzeccati), si nasconde però un sadico killer alquanto suscettibile. Questo dualismo del personaggio e della rappresentazione stessa della vicenda (solare e al tempo stesso splutter) è quello che cattura maggiormente l’attenzione di questo segmento narrativo. A questo si aggiunge un uso della comicità slapstick e verbale molto curato che, unita ai tipici cliché del “duello western”, risaltano le doti degli attori protagonisti e le musiche di Carter Burdwell (già assiduo collaboratore dei Coen per diverse pellicole), vere protagoniste dell’episodio. L’atmosfera surreale e onirica del racconto è il biglietto da visita con cui si presenta il film dei Coen e si può dire che l’effetto straniante sia perfettamente riuscito. Il lato comico, inoltre, permette allo spettatore di godersi appieno il racconto ed esorcizza tutto il alto tragico-splutter della vicenda (quasi un esorcizzazione di tutta la violenza del vecchio West)e porta lo spettatore a procedere tranquillo nella visione.
Near Algodones
Il secondo episodio prosegue nel mostrare il lato comico-surreale della pellicola, ma stavolta la risata è più amara e il musical lascia il posto al vero e proprio horror-gangster movie. Si tratta infatti di un gangster movie (in particolare fa parte di quel sottogenere definito caper movie) insolito in cui James Franco è un rapinatore di banche alquanto maldestro e sfortunato. L’episodio segue la sua parabola esistenziale discendente fino alla “naturale” impiccagione che ne decreta la fine della carriera criminale.
Ma prima di arrivare a quel momento lo sfortunato rapinatore viene introdotto in un climax di “sfighe” continue in cui tutto il sadismo dei Coen viene fuori prepotentemente. E qui si fa avanti anche l’horror inteso come “stupore e raccapriccio per la sorte del protagonista” in quanto lo spettatore viene portato a empatizzare con il dolore del personaggio di James Franco ma non può fare assolutamente nulla per evitarne la triste fine.
A livello narrativo è decisamente uno dei punti più alti di tutto il film e l’epilogo finale è un capolavoro di black humour degno di tutta la poetica coeniana.
Meal Ticket
Dopo i primi due episodi comico-surreali ecco che i Coen ci introducono, invece, in un road-movie esistenzialista in cui, ancora una volta, è l’horror a farla da padrone. Un orrore che stavolta però è più malinconico che spaventoso.
Liam Neeson è l’impresario di un teatro ambulante la cui attrazione principale è un uomo mutilato di gambe e braccia (un ottimo Harry Melling) che recita a memoria interi passi della Bibbia e di molti classici della letteratura, i quali sembrano fare tutti riferimento alla sua condizione fisica. Gli spettatori rimangono affascinati da questo starno individuo e dal suo modo di raccontare e gli affari dell’impresario vanno molto bene… fino a che una nuova attrazione pare rubare la scena all’uomo-mutilato e allora all’impresario non rimane che compiere una difficile scelta.
L’episodio è una rappresentazione ironico-orrorifica dello show-business odierno, un mondo dove l’enterteiment è quasi sempre sfruttamento di fenomeni da baraccone che vivono sempre una vita molto effimera (meno dei canonici 5 minuti warholiani) e del rapido cambiamento di attenzione dello spettatore moderno che premia sempre di più la volgarità commerciale alla qualità ricercata.
Gli attori protagonisti danno prova di grande umanità e caratterizzazione dei propri personaggi, anche con dialoghi ridotti veramente all’osso.
Il pessimismo cosmico dei Coen è il vero protagonista dell’episodio e la cornice western, apparentemente messa in secondo piano, si adatta in realtà molto bene a quanto viene narrato, diventando veramente metafora di un mondo “selvaggio”.
All Gold Canyon
In un paesaggio che potrebbe ricordare una sorta di Eden biblico (e in effetti se si guarda bene, riferimenti biblici ci sono più o meno ovunque nella pellicola improvvisamente fa il suo ingresso l’Uomo.
E, come spesso accade, il suo ingresso in scena è sinonimo di guai, soprattutto perché il suo agire rompe l’equilibrio naturale delle cose. In questo caso il protagonista del racconto (interpretato da un ottimo Tom Waits) è un cercatore d’oro che è convinto che ci sia un filone d’oro nascosto in quella vallata. La ricerca spasmodica del filone è ciò che guida questa rivisitazione, in salsa western, dell’eterno conflitto tra uomo e natura. Si potrebbe dire che il cercatore e il filone rappresentano, infatti, una sorta di Capitano Achab e Moby Dick della Frontiera. Ma volendo è anche una metafora del Giobbe biblico o del Mazzarò verghiano.
La lotta titanica tra l’Uomo e la Natura si concluderà con un sostanziale pareggio tra i due, con un ritorno alle immagini iniziali nell’ultima scena, come a voler rappresentare visivamente una “ciclicità delle stagioni”. C’è tuttavia, tra i due contendenti, una sorta di rispetto tacito, da avversari che riconoscono l’uno il valore dell’altro. Il cercatore, infatti, pur consapevole di star violando quel luogo incontaminato, è tuttavia rispettoso delle altre creature del luogo (vedere in questo caso la scena delle uova) ed è sicuramente affascinato da quel paesaggio incontaminato (meravigliosamente ripreso e fotografato quasi in modo documentaristico da Bruno Delbonnel, già Premio Oscar per Il favoloso mondo di Amélie).
Si tratta dell’unico episodio di tutta la pellicola che ha un finale (quasi) positivo e il personaggio protagonista è certamente uno dei migliori e più umani mai rappresentati dai fratelli Coen.
The Gal Who Got Rattled
Proseguendo nella carrellata di generi cinematografici messa in atto dai Coen, ecco che si arriva a questo melò sentimentale (o love story che dir si voglia) di ambientazione western. Il tema mostrato è quello del viaggio verso l’Ovest, compiuto da una carovana in cui si ritrovano a viaggiare insieme Alice (Zoe Kazan), giovane ragazza il cui fratello è appena morto di colera, e Billy Knapp (Bill Heck), mandriano incaricato di fare da scorta alla carovana.
I due s’innamorano e progettano di andare a vivere in Oregon e mettere su una fattoria. Il destino (leggasi il sadismo dei Coen) ha in mente altri progetti per loro.
La parabola e il percorso (non solo metaforico) di Billy e Alice sno il pretesto, da parte dei due fratelli-registi, per profonde riflessioni sulla vita e sulla morale, riscontrabili (come al solito) nei dialoghi dei personaggi, che solo apparentemente sembrano messi a caso per rallentare la trama. In realtà ne rappresentano la vera ossatura e il vero scopo dei Coen, quasi il loro manifesto dichiarato dai loro stessi personaggi. Solo da lì è possibile capire il significato non solo dell’episodio ma di tutto il film.
Non mancano i momenti ironici e surreali (un vecchio che balla su una musica country con un manichino) che, nel complesso, rappresentano in toto la poetica coeniana.
The Mortal Remains
Non poteva che concludersi con una classica “scena della diligenza” (tematica resa famoso da Ombre rosse, considerato “il film western” per eccellenza) questo insieme di racconti.
La diligenza, infatti, ha da sempre rappresentato in questo genere una sorta di microcosmo che diventa una metafora del mondo e dei rapporti umani. Uno spazio spesso ristretto e scomodo che fa da cassa di risonanza per ogni tensione o contrasto esistente tra i personaggi.
Qui però la metafora assume contorni ancora più metafisici ed esistenzialisti.
Anche se non ci sono assalti da parte di indiani, la sensazione di pericolo imminente è presente dall’inizio alla fine e l’horror torna prepotentemente più che mai n questo ultimo segmento.
In una diligenza diretta non sia bene dove (del mondo esterno c’è poca o nulla traccia) si trovano cinque individui, ognuno di diversa estrazione sociale.
Due di loro (Jonjo O’Neill e Brendan Gleeson) sono due cacciatori di taglie che stanno portando un cadavere all’ufficio dello sceriffo per riscuotere il premio in denaro. Gli altri tre (dall’altro lato della carrozza) sono una signora dell’alta borghesia (Tyne Daly), un trapper (Chelcie Ross) e un biscazziere di origini francesi (Saul Rubinek).
Tutto l’episodio si gioca su questo ambiente claustrofobico in cui veniamo a conoscenza delle vite dei protagonisti solo tramite i loro dialoghi. E qui viene fuori il genio dei Coen-scrittori che riescono a delineare molto bene i caratteri umani solo grazie a pochi ma studiati gesti e alla mimica dei personaggi (tra l’altro tutti gli attori sono una dimostrazione della predilezione dei Coen per i volti squadrati e grotteschi).
Ben presto i rapporti di potere tra personaggi volgono verso i due cacciatori di taglie, i quali sanno molte più cose di quanto non vogliono rivelare. E soprattutto sanno molte cose su tutti gli altri ospiti della diligenza…
La tensione continua e l’arrivo alla meta finale tengono incollato lo spettatore fino alla fine e sono la degna conclusione di tutta la pellicola: un insieme di riflessioni sulla vita e sulla morte (vero leitmotiv di tutto l’episodio). I Coen non nascondono il loro citazionismo letterario (i personaggi interpretati da Jonjo O’Neill e Brendan Gleeson sembrano raffigurazioni di Edgar Allan Poe e Sherlock Holmes) e intessono un racconto che trascende il genere western per farsi metafora pura di altro.
Un “altro” che solo i due autori sanno e che può essere solo interpretato dallo spettatore.
Il libro, a questo punto, si chiude e il “romanzo della Frontiera” può esistere solo nel ricordo e nell’applauso rivolto verso i due fratelli-registi che, ancora una volta, hanno reso omaggio e innovato allo stesso tempo un genere che, ad oggi, tutto può essere considerato tranne che morto.
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