La saga di Sharknado, famoso/famigerato franchise prodotto dalla Asylum per il canale televisivo Syfy, giunge alla sua conclusione con il sesto capitolo, presentato in Italia durante l’anteprima di Lucca Comics & Games 2018. Il soggetto della saga è talmente high concept da essere ormai diventato conosciutissimo: dei tornado contenenti squali, detti appunto sharknado, minacciano l’umanità, e il gruppo di protagonisti deve scongiurare il pericolo. Film dopo film, la saga introduce elementi sempre più esagerati ed assurdi ed il sesto capitolo, diretto da Anthony C. Ferrante, è il coronamento di tutto il percorso. Stavolta i protagonisti Fin (Ian Ziering), April (Tara Reid), Nova (Cassandra Scerbo) e Bryan (Judah Friedlander, e in seguito Debra Wilson) devono viaggiare nel tempo per fermare gli sharknado una volta per tutte, visitando varie epoche storiche ed incontrando nel frattempo personaggi celebri.
È chiaro come abbia ben poco senso giudicare Sharknado 6 come prodotto filmico, anche considerando che è il sesto episodio di una serie che ricicla la stessa premessa da ormai cinque anni. Ogni aspetto tecnico e artistico del film è nel migliore dei casi approssimativo. Dai sempre scarsi effetti visivi ad una sceneggiatura fin troppo condensata; dalla recitazione quasi sempre inefficace alla regia praticamente inesistente. Tutto contribuisce a rendere il film, volendo essere generosi, dimenticabile. In mancanza di generosità, si può tranquillamente definirlo pessimo.
Approfondire una critica tradizionale di Sharknado 6 è quindi evitabilissimo. Può invece risultare molto più interessante analizzarlo come operazione metacinematografica e intertestuale. Sharknado 6 infatti è il culmine di una tendenza nata nei capitoli più recenti della saga, che ha gradualmente iniziato ad ammiccare sempre più al proprio pubblico. Gli spettatori del primo Sharknado sono rimasti soddisfatti dal film in misura molto maggiore rispetto all’entusiasmo dimostrato per i film prodotti in precedenza dalla Asylum, e il franchise è diventato talmente popolare da essere stato persino citato nella celebre serie tv The Big Bang Theory. Consapevoli dell’assurdità della loro creazione e che la stessa assurdità fosse stata accettata e apprezzata dal pubblico, i produttori hanno alzato sempre più il tiro, sia a livello di bizzarria che di budget, con guest star di ogni sorta e spesso del tutto inaspettate.
Ne deriva l’inevitabile impossibilità di prendersi sul serio: se il primo Sharknado era perfettamente in linea con i film prodotti dalla Asylum fino a quel momento, i successivi abbracciano il loro essere sopra le righe, e gli stessi protagonisti sembrano essere consapevoli del tipo di avventura in cui gli autori li hanno collocati. Il sesto capitolo porta tutto ciò all’estremo, riprendendo concetti dei film precedenti ed esagerandoli ancor più; gli spettatori che si esaltarono alla visione di motoseghe sempre più improbabili e potenti, usate come armi bianche, troveranno una nuova ragione per farlo anche in Sharknado 6. Come già accennato, la trama contiene talmente tanti avvenimenti da stare stretta alla limitata durata di novanta minuti, e spazia dalla fantascienza al fantasy (con un Merlino interpretato dall’astrofisico e divulgatore Neil deGrasse Tyson), senza naturalmente tralasciare il western.
È però il finale a sottolineare maggiormente la natura autoreferenziale di Sharknado 6, nonché dell’intera saga. Dopo la prevedibile vittoria dei protagonisti (a dirla tutta, l’unica cosa davvero prevedibile in un film densissimo di eventi inaspettati), Fin inizia un discorso di fronte ai clienti del suo locale, nel quale dichiara la fine delle loro avventure, ricordando queste ultime e la loro stranezza ma anche il divertimento provato nel viverle. Un discorso che è in realtà chiaramente rivolto agli spettatori del film, i quali, consapevoli di tutto ciò che hanno visto fino a quel momento, vengono infine ringraziati e salutati. In fondo è forse questo il vero valore di Sharknado 6: la dimostrazione di come persino un film pessimo sotto ogni punto di vista possa avere qualcosa da dire, se guardato dalla giusta angolazione.
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