Conosciamo questa vicenda ormai fin troppo bene, l’abbiamo vista già diverse volte, declinata nei diversi periodi storici, come una sorta di mito hollywoodiano destinato ad aggiornarsi e rinnovarsi ciclicamente. Nel 1937 è la storia di una provinciale ed ambiziosa Esther Blodget- trasformata da un produttore nella sua versione più glamorous Vicky Lester- che si afferma come diva del cinema classico; una Esther più dinamica e spregiudicata, interpretata da Judy Garland, approda nella Hollywood già mutata degli anni Cinquanta, avviata ormai inesorabilmente verso il tramonto della sua epoca d’oro. A pochi anni da Woodstock, quando il mondo dello spettacolo ha definitivamente aperto le porte agli ambienti del rock e del pop, Barbra Streisand, nel terzo remake del film del 1974, veste i panni di una rockstar in grado di sedurre il pubblico grazie alla potenza della voce ed alla forte personalità.
Quasi un secolo dopo la sua prima versione, la celebre storia della diva in ascesa si presenta con contorni decisamente modificati, tanto che il personaggio principale non conserva neppure il proprio nome, ma passa dall’ ormai desueto Esther al più aggiornato Ally. Questa volta ricopre il ruolo una delle maggiori star contemporanee, Lady Gaga, che si presenta sullo schermo in una forma totalmente inedita. A stento riconoscibile dalla popstar biondo platino che nel 2008 scalava le classifiche musicali con “Poker-face”, la performer americana appare invece in una versione più naturale, con le imperfezioni del volto bene in vista, nei panni di una ragazza semplice e che conquista le folle in primo luogo per il modo autentico ed immediato di comunicare.
La sua prima performance all’interno del film (quella che la porterà, secondo uno schema già consolidato nelle versioni precedenti, ad ammaliare un artista di successo finito per caso nei paraggi) avviene in un bar di raccolta per transessuali e la vede interprete di una celebre canzone di Edith Piaf, portata al successo anche dalla tromba di Louis Armstrong. Tra le rappresentazioni grottesche ed artefatte dei travestiti e l’esibizione de “La vie en rose” cantata da Lady Gaga con molta eleganza, si crea infatti un aperto contrasto, teso a far emergere la potenza espressiva della cantante.
Prende dunque avvio la storia d’amore con il personaggio maschile ( interpretato da Bradley Cooper, in questo contesto anche regista e cosceneggiatore) e così anche il percorso verso il coronamento del sogno americano. Tuttavia il progressivo raggiungimento di una popolarità sempre più trasversale sembra non corrispondere ad un’evoluzione positiva del personaggio. Ally finisce infatti col tradire la propria autenticità artistica, per ritrovarsi a cantare brani sempre più mediocri e privi d’impatto emotivo, che riecheggiano vagamente quei primi singoli che avevano portato anche la vera Lady Gaga al successo.
Si apre a questo punto un discorso meta-hollywoodiano (inteso in senso lato) che tenta una riflessione sui processi di standardizzazione della dimensione cinematografica e musicale, spesso in bilico tra il prodotto industriale e l’opera d’arte. Questa dicotomia, che sintetizza un paradosso alla base di gran parte della produzione della cultura di massa americana, è ben rappresentata dai personaggi di questa versione ultima di “E’ nata una stella”. Se infatti Ally viene inizialmente individuata nella massa per la sua carica anticonformista, il desiderio di celebrazione collettiva la porterà successivamente a spogliarsi degli elementi più personali ed eccezionali della propria artisticità.
Uno scrittore inglese che negli anni Cinquanta ha soggiornato brevemente ad Hollywood, Evelyn Waugh, rilasciò al tempo questa dichiarazione “Tutti i libri di cui vengono acquistati i diritti per trarne un film hanno una qualche qualità specifica che, nel bene e nel male, li ha resi degni di nota. A Hollywood una folta schiera di sceneggiatori, pagati anche profumatamente, ha il compito di individuare questa qualità isolarla e distruggerla”. Questo paradigma, che viene successivamente definito di “patinatura” di un libro, si potrebbe in qualche modo applicare alle circostanze più recenti di questo film e, nello specifico, alla trafila della carriera della protagonista Ally. Quello che risulta tuttavia curioso, a tratti quasi stridente, è come questo messaggio di critica profonda nei confronti dei meccanismi hollywoodiani venga di fatto mutuato da un film prettamente ed intrinsecamente hollywoodiano e da un punto di vista di scelte registiche e per la partecipazione di attori perfettamente inseriti in questa dimensione.
Nell’arco di ottant’anni il percorso di una stella è dunque andato incontro ad una serie notevole di cambiamenti, passando dalla technicolor del primo film di Wellman fino alle tinte più moderne della versione di Bradley Cooper; il prototipo della diva si è trasformato, evoluto, assumendo progressivamente diverse sfaccettature, eppure il fascino seduttivo e fatale del successo, all’ombra di un sogno americano ingannatore, è rimasto, tutto sommato, invariato nel tempo.
Martina Ventura
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