Germania, fine anni ’30: nel bel mezzo di una lezione d’indottrinamento ideologico nazista, demonizzatore dell’inutilità dell’ “Arte degenerata”, quella moderna, il piccolo Kurt Barnert (Tom Schilling), accompagnato dalla giovane zia Elisabeth (Saskia Rosendahl), percepisce per la prima volta la potenza travolgente della libera soggettività. Un’epifania che spingerà il protagonista, una volta cresciuto, alla totale consacrazione della propria vita all’arte e alla ricerca della bellezza immanente alla intima verità. A distanza di anni – anni di afflizioni per Kurt allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, travolto da traumatici eventi familiari dettati dalla distruzione nazista – il grande insegnamento della zia Elisabeth sembra ripetersi ossessivamente nella testa del giovane artista: «Mai distogliere lo sguardo» da ciò che si ritiene essere vero, perché ciò che è vero diventa necessariamente bello. Elisabeth, vittima della folle politica eugenetica portata avanti dal Professor Seeband (Sebastian Koch), è considerata dal regime come essere non degno di vivere per via della sua schizofrenia, la quale si rispecchia in una mente artistica brillante e fuori dagli schemi imposti, non conformata e quindi considerata aberrata. Kurt invece, trovandosi a vivere la “schizofrenia” di un Paese che si trova scisso in due metà nemiche – ideologicamente e culturalmente opposte –, diventa emblema di chi cerca di oltrepassare le rigide limitazioni dei confini alla ricerca dell’armonica unione di entrambi. L’appassionata storia d’amore con Ellie (Paula Beer) sarà l’ennesima riprova di ciò, trascinato verso l’inevitabile scoperta della macabra verità che lo collega alla famiglia del Professore carnefice.
Dopo Le vite degli altri – premiato con l’Oscar nel 2006 – e il flop di The Tourist (2010), Florian Henckel von Donnersmarck torna con Opera senza autore a percorrere i passi storici della sua Germania spaccata in due. Uno sguardo a tre differenti decenni di una delle epoche più controverse della Storia, la cui scissione politica globale ebbe grande impatto sulla cultura e il modo di vivere delle persone, trovatesi d’un tratto a spararsi con il “vicino” di casa. Un muro, così come un confine metaforico o fisico, possono casualmente decretare da che lato della barricata trovarsi: qual è quello giusto? Quale quello sbagliato? Secondo quali parametri l’individuo stabilisce cos’è giusto e cos’è sbagliato? Quarant’anni di divisone tra indottrinamento ideologico e riflusso politico, oriente e occidente, comunismo e democrazia, realismo socialista e neoavanguardie contemporanee, popolo e individuo: von Donnersmarck sembra suggerirci che l’arte e la passione sono gli unici collanti capaci di realizzare la coesistenza di questi opposti nello slancio verso la ricerca di un’idea, della sperimentazione creativa e della messa in forma del proprio vissuto. E lo stesso regista, con Opera senza autore, compie l’atto del sottotitolo del film, quello di «Non distogliere lo sguardo» per scrutare attentamente il passato storico del suo paese, reo di aver disseminato distruzione, con autenticità d’intenti e con piglio genuino rispetto alla pericolosa retorica con cui ormai troppo spesso viene trattata cinematograficamente l’abusata parabola di ascesi, apice e declino del Terzo Reich. Uno scenario, questo, che, essendo collaterale ma anche fondamentale, viene filtrato con gradevolezza dal tema-Arte, vero soggetto conduttore della narrazione e sapiente “escamotage” tramite cui analizzare, in background, uno dei periodi più oscuri della Storia dell’uomo e la conseguente difficile ricostruzione di una nuova quotidianità dopo questi anni traumatici.
Il risultato è un’armonica fusione tra vicende universali e storia personale, malgrado a più riprese sia proprio il leitmotiv dell’arte ad essere causa di banalità; la sceneggiatura cade talvolta in passaggi narrativi scontati e dialoghi poco originali rispetto alle essenziali domande che indagano il tema: «Qual è la vera funzione dell’arte?», «Che cosa significa per l’individuo?». Senza dubbio l’arte, posta in primo piano come componente necessaria nella vita dell’essere umano, diventa il mezzo privilegiato per rappresentare in che modo le vie d’espressione di sé siano inconfinabili, senza limiti – libere – e, nel corso della Storia, baluardo di opposizione alle soffocanti repressioni ideologiche. Un film che, sebbene non tocchi picchi tali per poterlo definire un thriller da cardiopalma di alto livello, non risulta mai sottotono e ha il merito di sostenere i 188 minuti mantenendo sempre alta l’attenzione e l’interesse. La vicenda di Kurt, a prescindere dal tragico contesto storico, è quella sincera di un uomo che, trascendendo dalle limitazioni ideologiche e geopolitiche, segue la sua vocazione con la sicurezza di chi sa di essere nel giusto e con il coraggio di chi persegue la (propria) verità.
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