Il cinema italiano, ultimamente, sta proponendo diverse storie su giovani disagiati in situazioni difficili, altamente drammatiche ed emotive. Pellicole realizzate con uno sguardo da cinema verità, con lo sguardo documentaristico, tipico del cinema verità. Manuel appartiene a questa categoria, tuttavia, si contraddistingue per un approccio molto atipico, denso e con una storia – non storia. Un racconto di formazione che racconta un frammento della vita del giovane diciottenne protagonista.

Il plot è molto semplice. Manuel è un diciottenne che esce dall’istituto di minori perché intenzionato a far avere gli arresti domiciliari alla madre. Per questo motivo ritorna alla terra natia e si fa carico di organizzare tutte procedure per aiutarla ad uscire dal carcere. Farsi carico della madre in quanto giuridicamente adulto. Tuttavia, la strada è in salita per il giovane che viene messo sottopressione dal fatidico compito.

I difficili anni dell’adolescenza vengono condensati in una storia toccante, emotiva e comprensibile. Manuel ha passato gran parte dei suoi anni di formazione in un istituto per minori. Un luogo protetto, istruttivo ed insieme ad altri ragazzi. Un bravo ragazzo che, all’improvviso, sceglie di farsi carico di aiutare la madre in quanto giuridicamente maturo e poiché “mi ha messo al mondo, è il minimo che possa fare”. Una riconoscenza, un dovere che si impone per aiutare colei che gli ha donato la vita. Un carico emotivamente eccessivo e che lo porta ad assumersi dei compiti maggiori rispetto ad altri suoi coetanei. La paura di venire schiacciati, di non riuscire nell’impresa. Il tutto senza l’aiuto di nessuno. Nella sua vita, gravitano, accidentalmente o meno, molti personaggi che “gli mettono pressione”, gli confermano che sta compiendo una buona azione ma che si tratta di un compito impegnativo e di coraggio. In questo modo, Manuel vive uno stato emotivo strozzato, un nodo alla gola che l’affligge e lo tormenta.

Lo stile è puramente documentaristico. Per certi versi un documentario di finzione in quanto lo stile è puramente del reale con macchina a mano e con movimenti della macchina della presa che seguono il protagonista in ogni situazione. Scene lunghe, senza dilatazioni, ma con presa diretta della vita di Manuel. Anche nei campi/controcampi, non c’è una frammentazione. Viene privilegiato l’attimo, il qui e ora, piccoli dettagli di sottrazione che arricchiscono il documentario di finzione e accrescono l’emotività della storia in quanto “reale”. Non esattamente neorealista, qui non importa l’aspetto sociale o ambientale. L’importante è la storia del ragazzo. Un occhio perpetuo che lo segue in ogni sua situazione, senza filtri e senza giudicare. Concettualmente è più simile alla concezione russa de “l’uomo con la macchina da presa”. L’emotività è anche accresciuta dal voyerismo, in quanto lo spettatore vive il percorso di Manuel in prima persona, da vicino.

Manuel è un bel film che gioca sul filo sottile tra realtà e finzione. Una storia di formazione che agisce in decrescendo e che fa trattenere il respiro. Per certi versi, atipico in quanto, in alcuni casi, sovverte le aspettative del pubblico e “mette fuori pista” lo spettatore giocando con elementi filmici (come quando viene ammutolita una scena in cui Manuel saluta una sua amica, da spettatori voyeuristi vogliamo sapere quello che si dicono. Zittendola, ci fa pensare che ci sia qualcosa di importante che non si voglia svelare in quel momento). Un storia non storia poiché della vita del giovane, paradossalmente si sa poco, l’essenziale e la narrazione è improntata al superamento di uno scopo. Uno scoglio che rende bene l’idea di un fardello appeso al collo del protagonista che, schiacciato, fatica a respirare. Allegoria che enfatizza l’emozione e che esplode in un piano liberatorio alla fine della pellicola. Un ottimo prodotto per un buon documentario di finzione.

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