Una massima che circola ormai da parecchio tempo afferma come per godersi certe storie particolarmente poco credibili al cinema sia necessario “spegnere il cervello”. Se volessimo usare termini più istituzionali, potremmo dire per certe pellicole è richiesta una tale sospensione dell’incredulità da costringere lo spettatore a seguire il film nella passività più totale. Jurassic World – Il regno distrutto si inserisce perfettamente in questa categoria di storie; diretto da J. A. Bayona, che subentra al regista del precedente Jurassic World Colin Trevorrow, racconta del tentativo di salvataggio dei dinosauri dal parco nel quale erano stati lasciati alla fine del film precedente, minacciato da un’eruzione vulcanica. Al duo di protagonisti Owen (Chris Pratt) e Claire (Bryce Dallas Howard) si oppone un team di mercenari assoldati da figure maligne che tramano per sfruttare gli animali a fini commerciali.

A parte un pianosequenza acquatico decisamente efficace e qualche altra sequenza interessante dal punto di vista visivo, il film cade in una quantità di trappole e semplicismi sorprendente. Scegliendo di considerare Il regno distrutto come quinto capitolo di una saga, com’è effettivamente, risulta quantomeno fastidioso il retcon con il quale inizia la trama. Il promotore dell’impresa di salvataggio è infatti l’ex-socio fondatore del famoso parco, che aveva costruito insieme al più famoso John Hammond, Benjamin Lockwood (James Cromwell): un personaggio che nei quattro film precedenti non era mai stato neanche nominato e che ora non solo assurge a motore per lo svolgimento della storia, ma diventa anche un tassello fondamentale per la nascita del proprio universo filmico.

La saga di Jurassic Park non si è mai presa troppo sul serio e questo ha sempre rappresentato un suo punto di forza, ma, come si suol dire, a tutto c’è un limite. Sembra quasi che gli autori de Il regno distrutto si siano fatti contagiare dalla presenza di Chris Pratt, già celebre protagonista dei due scanzonatissimi Guardiani della Galassia di James Gunn, e abbiano impostato il tono del film dandogli una demenzialità fuori dal comune per gli standard della saga. Abbiamo sequenze nelle quali un Owen in parte paralizzato si muove in modo buffo per cercare di salvarsi da una colata lavica; altre nelle quali la faccia di Owen viene ricoperta da bava di dinosauro (ben due, alla faccia della ridondanza); altre ancora in cui sono i dinosauri a dare spettacolo. Esempi perfetti di queste ultime sono il divoramento di un soldato appeso alla scaletta di un elicottero da parte di un Mosasaurus, nello stesso modo in cui un delfino all’acquario afferra al volo un pesce tenuto in mano dal suo addestratore; o il “terrificante” Indoraptor, di cui si parlerà a breve, che inganna il suo aggressore fingendo di dormire e dandoci modo di capire il suo piano guardando in macchina e sorridendo al suo pubblico; e la lista potrebbe continuare.

Semplificando all’estremo, si potrebbe giudicare Il regno distrutto definendo la sua prima parte come una brutta copia di Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), e la seconda come una brutta copia di Jurassic World (2015), rispettivamente secondo e quarto film della saga. La prima ora di proiezione infatti, come già descritto, vede una spedizione nel parco che ha in teoria uno scopo pacifico, ma il cui obiettivo segreto è quello di catturare le creature presenti; il tutto con l’aiuto di un gruppo di mercenari il cui capo Wheatley (un Ted Levine troppo caricaturale) non potrà però mai competere in carisma con il Roland Tembo di Pete Postlethwaite, da Il mondo perduto. Nella seconda ora invece scopriamo il progetto segreto degli antagonisti, ossia la creazione, tramite ingegneria genetica, di una specie ibrida potentissima proprio come l’Indomitus Rex del quarto capitolo, utilizzabile però come animale da combattimento: l’Indoraptor. Creatura che risulta tanto temibile quanto risibile a vedersi, sia nell’aspetto, esageratamente variopinto, che nei comportamenti spesso troppo ammiccanti.

Impossibile non citare poi i dilemmi etici che il film prova a porre. La nipote di Lockwood, Maisie (Isabella Sermon), si rivelerà essere nientemeno che il prodotto di una clonazione umana, motivo per il quale Lockwood e Hammond si erano separati in principio. L’introduzione di un tema così delicato porta nel film una seriosità che non gli appartiene, specialmente considerando l’impostazione che gli si è voluta dare. Come se non bastasse, tale tematica non viene neanche approfondita in seguito, risultando quasi un’aggiunta forzata, qualcosa che provasse ad elevare il racconto. È una fortuna l’annuncio degli autori di abbandonare il discorso sulle specie ibride nei film futuri, altrimenti la saga avrebbe rischiato di imboccare sentieri pericolosissimi, come la possibilità di introdurre un ibrido tra dinosauro e uomo.

Sorvolando sul finale, talmente perbenista e semplicistico da non valere la pena di parlarne, l’ultimo schiaffo arriva dopo il termine della trama: anche Il regno distrutto sfrutta infatti l’irritante e ormai fin troppo diffusa tendenza di inserire brevi scene alla fine dei titoli di coda. Tuttavia, mentre le pellicole Marvel, che hanno lanciato questa pratica, usano quei pochi minuti per mostrare eventi che introducano un sequel o svelino segreti, qui tutto ciò che ci viene mostrato sono due pterosauri in volo sopra la città di Las Vegas. Questo smacco conclusivo rappresenta in pieno l’essenza di Il regno distrutto: un film che oscilla tra il giocare con lo spettatore e il prendersene gioco. Sta allo spettatore decidere quanto valga la pena partecipare.

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