Poche stelle del cinema hanno vissuto una vita, sia pubblica che privata, mutevole come quella di Jane Fonda: l’infanzia traumatica, i primi passi nella recitazione, la fama, l’attivismo, le relazioni tormentate. Susan Lacy, già autrice di un apprezzato documentario su Steven Spielberg (Spielberg, 2017), continua la sua collaborazione con HBO in Jane Fonda in Five Acts, documentario sull’iconica attrice, che nel film racconta la sua vita, come da titolo, in cinque atti, ognuno rappresentativo di un periodo rilevante del suo percorso personale e professionale.

Con estrema linearità, il film ripercorre quindi tutte le tappe che hanno portato Jane Fonda a divenire la figura celebre e controversa che è oggi. Due aggettivi, celebre e controversa, che sono le due colonne portanti sulle quali è costruita la narrazione. Il film infatti pone enfasi sia sui traguardi professionali e filantropici di Fonda che su tutte le contraddizioni che l’hanno caratterizzata e la caratterizzano ancora oggi. Le tappe della sua evoluzione come figura pubblica sono note ai più: da figlia d’arte, costretta in ruoli che non sentiva propri, a icona sexy, con risultati identici, per poi diventare attivista convinta e usare il proprio ruolo per agevolare la produzione di film come Tornando a casa (Hal Ashby, 1978), Sindrome cinese (James Bridges, 1979) e Dalle 9 alle 5… orario continuato (Colin Higgins, 1980), tutte pellicole di notevole risonanza sociale. Infine i celebri video di aerobica diffusi in VHS negli anni Ottanta e la rinascita attoriale in tarda età, sia sul grande che sul piccolo schermo. Anche la sua vita privata sconfinò nel pubblico, grazie ai matrimoni con celebri personaggi quali Roger Vadim, Tom Hayden e Ted Turner.

Durante tutto lo svolgimento del film risulta quindi evidente l’estrema mutevolezza di Fonda, attrice e pensatrice in continua trasformazione, anche a costo di risultare incoerente ad alcuni. Quel che traspare dalla narrazione è in realtà una persona tormentata dal proprio passato: il suicidio della madre Frances Ford Seymour e il difficile rapporto con un padre come Henry Fonda hanno segnato profondamente l’artista, che in quello che è forse il momento più toccante del film racconta la genesi del film Sul lago dorato (Mark Rydell, 1981). Il film in questione viene rivelato per come Jane Fonda, comprando i diritti dell’opera teatrale omonima, lo aveva pensato fin dall’inizio: un’occasione per riallacciare i rapporti con il proprio genitore ormai prossimo alla morte, che infatti sarebbe sopraggiunta l’anno successivo. Nel suo descrivere le scene topiche del film con questo nuovo punto di vista, la sequenza va oltre l’emozione del momento, rendendo impossibile rivedere Sul lago dorato con gli stessi occhi che lo avevano guardato la prima volta.

Jane Fonda in Five Acts non è però privo di difetti: la coerenza e la pulizia che mostra nel raccontare il suo soggetto risultano il vero punto debole del film. L’approccio fin troppo televisivo e lo storytelling di taglio giornalistico-biografico finiscono alla lunga per rendere il film ridondante; l’assenza di una regia che vada oltre le convenzioni, o che comunque abbia un taglio riconoscibile, rende quasi inevitabile il sopraggiungere della noia, considerando anche la durata forse eccessiva. In definitiva dunque, il documentario riesce nel suo intento di raccontare, anche emozionando, la sua protagonista, ma viene ostacolato da un’impostazione stilistica che risulta inadatta al tipo di storia che racconta. Essendo una produzione HBO, viene da pensare che trasmetterlo in televisione dividendolo in due parti sarebbe forse stata una scelta migliore.

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