La Ciotat, fine anni Ottanta: centinaia di operai di uno dei maggiori cantieri navali del sud della Francia iniziano una dura lotta per impedire la chiusura del loro posto di lavoro. La Ciotat, oggi: un gruppo di ragazzi francesi di diversa etnia e appartenenza sociale partecipa ad un workshop estivo di scrittura creativa, con lo scopo di sviluppare, dall’unione delle proprie idee ed esperienze, un romanzo collettivo sotto la direzione di Olivia (Marina Foïs), famosa autrice di gialli. Il passato operaio della cittadina diventa il sostrato su cui costruire un thriller ambientato proprio in quel cantiere, scenario di vicende gloriose e tragiche, emblema-relitto di uno spaccato ideologico generazionale perduto. Ben presto però il laboratorio creativo diventa un terreno di battaglia in cui quelle idee, tanto eterogenee quanto i bagagli culturali di ogni componente del gruppo (formato anche da ragazzi di origine arabo-islamica e africana), si tramutano in scontri di ideali, di diverse visioni del mondo. Tra essi emerge l’estremismo politico – razzismo e violenza soprattutto – del protagonista, Antoine (Matthieu Lucci, al suo esordio), ragazzo dall’immaginazione brillante e fervida ma impermeabile alle radici del passato e tutto volto al qui ed ora del presente. L’intolleranza delle sue posizioni e la preclusione al dialogo lo portano a preferire l’isolamento, mentre cresce l’interesse di Olivia verso il ragazzo, strana ed ermetica creatura di un presente altrettanto incomprensibile.
A distanza di dieci anni dal pluriacclamato La Classe, Laurent Cantet ritorna a indagare sulle dinamiche che si possono instaurare tra un gruppo di ragazzi in un ambiente formativo, ponendo ancora una volta il dibattito e lo scambio di opinioni contrastanti come momenti fondanti della crescita individuale e della maturazione di una coscienza sociale collettiva; punti di partenza da cui prendono le mosse ampie considerazioni socio-politiche di cocente attualità: il razzismo, il rapporto con il diverso, le disuguaglianze sociali, la precarietà economica e lavorativa, il proliferare dei nuovi movimenti di estrema destra. Quella restituita da Cantet è una rappresentazione multicolore di una società contemporanea multiforme, afflitta dall’odio e dalla violenza – l’ombra del terrorismo su tutti –, che cerca di comprendere come vengano (o meno) metabolizzati dalle nuove generazioni, ormai assuefatte ad essi, abituate a conviverci come dati di fatto ineluttabili.
Ciò che rende il personaggio di Matthieu Lucci particolarmente efficace – e ancora più vigoroso grazie al variegato mosaico dei giovani con cui si scontra – è il modo in cui Cantet ne tratteggia l’estremismo, un odio che non sembra attingere a basi ideologiche ma a deformazioni estetizzanti, percettive. Similmente alla vicenda narrata in Elephant di Gus Van Sant, Antoine vive in uno stato di apatia lucida e consapevole, ed altrettanto lucido è l’uso che fa della violenza come gioco per evadere dalla noia e dalla solitudine del quotidiano. L’inserimento di vere e proprie soggettive dei videogames “picchiaduro”, di cui il protagonista si imbottisce con gli amici, amplifica l’idea per cui lo smercio spicciolo di violenza mediatica a cui ogni giorno siamo sottoposti (o ci sottoponiamo volontariamente, come fa Antoine) tra video militari, servizi giornalistici, massacri terroristici, abbia causato una conseguente standardizzazione dell’estetica della violenza che dall’immagine virtuale trova il suo corrispettivo trasposto nel reale, minando le menti più fragili e fertili. Della stessa realtà, vissuta come prosecuzione dei videogiochi, il giovane replica gli atti di violenza fini a se stessi, privi di senso: uno sparo rivolto alla luna. Allo stesso modo Antoine si atteggia a nazionalista in modo sterile e insensato, privo di reali fondamenta, perché costruito su un rifiuto dello stesso bagaglio storico su cui dovrebbe stratificarsi e allo stesso tempo assunto come proprio sulla base di inconsistenti posizioni politiche che ostentano un’identità forte per nascondere i loro strutturali vuoti ideologici.
Antoine è silenzio (re)azionario; cerca un proprio posto nel mondo e, incapace di esprimerlo verbalmente agli altri, è con le parole scritte che simultaneamente comprende e libera il suo malessere nichilista: «Senza avvenire, senza lavoro, poteva dirsi fortunato».
Ma Antoine non è un caso isolato, è l’estremo di una generazione che crede prima al filtro virtuale posto tra sé e la realtà, e poi alla realtà stessa. Riprendersi e riguardarsi: la registrazione conferma e rafforza l’esistenza di ciò che si è vissuto se ciò che si è vissuto è fragile e vuoto. Se le immagini spesso inebetiscono e offuscano, la scrittura ragionata e collettiva invece diventa una lente d’ingrandimento che aiuta il gruppo a comprendere meglio ciò che li circonda e a denunciare con la finzione. La realizzazione a cui giungerà anche Olivia – che di fatti la rende impotente e spoglia dei suoi rassicuranti schemi appartenenti a un’altra generazione, mentre scruta il ragazzo scissa tra curiosità, timore e attrazione morbosa – è che in realtà Antoine possiede in sé una porzione di verità sconcertante: l’assurda autenticità di vivere in modo perfettamente lucido la violenta insensatezza dell’epoca in cui è cresciuto, non rendendola un tabù ma tuffandocisi e facendola propria, per comprendere infine chi è il suo reale “nemico”.
L’escamotage narrativo su cui si muove il film co-sceneggiato da Cantet e da Robin Campillo, il fatto che la macro-vicenda prenda le mosse e si muova parallelamente alla fittizia storia ideata dai giovani, per poi staccarsi e assumere vita propria (o meglio la vita di Antoine) virando verso un sorprendente thriller, crea un originale intreccio tra cinema e letteratura, narrazione filmica in sé e scrittura quale uno dei “soggetti grammaticali” portanti del film, su due piani di finzione di cui il primo pretende assurgere a “realtà” (ne sono esempio gli inserimenti di video-documentari di repertorio del cantiere). Nel 1896 i Fratelli Lumière proiettavano uno dei primi cortometraggi della storia del cinema, L’Arrivée d’un train à La Ciotat, ambientato proprio nella stazione ferroviaria del paese scenario de L’Atelier. Il fil rouge che collega i cineasti pionieri di ieri e i giovani scrittori in erba di oggi è lo stesso: il bisogno di rendere speciale e avventurosa la vita quotidiana tramite l’arte del narrare e drammatizzare una porzione di reale.
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