Arriva anche nelle sale italiane, dopo l’anteprima al Future Film Festival, il primo lungometraggio targato Studio Ponoc, uno studio di animazione giapponese fondato, nel 2015, da Hiromasa Yonebayashi e Yoshiaki Nishimura.
Questi, dopo una lunga militanza all’interno del più noto Studio Ghibli, hanno deciso di mettersi in proprio e riunire alcuni ex-colleghi in questo nuovo progetto. E il risultato finale è proprio questo lungometraggio che, nonostante tutto, deve ancora molto all’estetica e alla poetica miyazakiana.
Mary And The Witch’s Flower (Mary e il fiore della strega, come recita il titolo italiano) sembra proprio il classico prodotto “da Studio Ghibli”, quasi una sorta di passaggio di testimone tra i due Studi, come a voler cercare comunque un contatto con quella che è la storia del cinema d’animazione giapponese e la volontà di cercare comunque qualcosa di diverso rispetto ai padri fondatori.
Il soggetto della storia è tratto dal romanzo La piccola scopa della scrittrice inglese Mary Stewart, molto nota negli anni 60 per i suoi romanzi fantasy che mischiano mistery e romanzo rosa. Anche in questo caso, infatti, troviamo una storia di formazione e accettazione di sé dietro una storia apparentemente infantile dove vengono mischiati avventura, mistero e fiaba.
Una scelta che rientra perfettamente in quella tradizione di “storie dal mondo” dello Studio Ghibli, il quale ha sempre avuto un rapporto molto forte con il mondo letterario e con le ambientazioni europee.
In questo caso la storia si svolge in piena campagna inglese e la cultura è prettamente british, a partire dal rituale del tè delle 5 fino alla struttura degli interni delle case. In un villaggio di campagna abita Mary Smith, ragazzina di dieci anni un po’ goffa e maldestra che sta trascorrendo le sue vacanze estive in casa della prozia, in attesa di iniziare l’anno scolastico. La bambina si annoia e non ha molti amici, a parte Peter, un ragazzo del luogo che però la prende sempre in giro per i suoi capelli rossi, cosa che la infastidisce molto.
Un giorno però Mary scopre per caso, nel bosco vicino a casa sua, un fiore particolare che dona poteri magici a chi non li possiede. Grazie ad esso, e a una scopa incantata, Mary scopre un mondo parallelo sopra le nubi in cui vivono le persone dotate di magia. Qui, scambiata per una ragazza dal sangue magico (avendo i capelli rossi che, nella tradizione popolare, erano quelli che si abbinavano meglio a una strega) viene subito mandata all’Università della Magia, governata da due personaggi veramente particolari: la direttrice Madama Mumblechook e il professor Dee, un esperto di magia e di scienza che si diletta in strani esperimenti.
Qui ,per la prima volta in vita sua, Mary si sente stimata da tutti (che la considerano veramente un’ottima strega) e accettata per quello che è, ma sa di non essere una vera strega e perciò, finita la visita, prende la scopa e torna a casa, non prima di aver rubato un misterioso libro con alcune formule magiche. Le conseguenze del gesto, naturalmente, saranno inimmaginabili per Mary e tutti i suoi conoscenti.
La Mary Smith che Yonebayashi rappresenta nella sua pellicola si scaglia nel solco della tradizione delle eroine miyazakiane, ingenue ma tenaci, con una personalità e una caratterizzazione veramente elevate. Un po’ più abbozzati sono tutti gli altri personaggi del film. Si può dire che la pellicola, infatti, da questo punto di vista sia character-centrica, tutta focalizzata sul personaggio principale che si staglia su tutto il resto non lasciando però spazio a tutto il “contorno” attorno a lei.
A parte questo difetto principale la pellicola è sicuramente adatta al target a cui si rivolge (quello pre-adolescenziale, ma anche alla fascia più infantile) mantenendo comunque un sottotesto erotico che solo il pubblico più “adulto” è in grado di decifrare e apprezzare.
Si tratta, dunque, di un film per bambini e ragazzi ma certamente non è il classico percorso di formazione trito e ritrito. E tuttavia gli elementi più innovativi sembrano sempre venire smorzati da uno stile e una tecnica che ancora fatica a distaccarsi dal modello precedente, quello dei film di Takahata e Miyazaki.
Appaiono fin troppo evidenti gli omaggi e le citazioni ai personaggi di Laputa e La città incantata, un problema che era stato riscontrato anche in un altro film presente al festival, Big Fish And Begonia. Pare quasi che l’animazione asiatica faccia fatica a distaccarsi dal modello miyazakiano che ancora, almeno per quanto riguarda la distribuzione occidentale di film d’animazione provenienti da questa parte del mondo, la fa da padrone.
Il che, sotto molti aspetti, è una delusione sapendo che il regista è lo stesso di Arriety, film-capolavoro dello Studio Ghibli che tuttavia, a livello tecnico-stilistico dimostrava una reale volontà di innovazione e di distaccamento dai modelli precedenti.
Mary And The Witch’s Flower esegue diligentemente il suo compito di film d’intrattenimento puro, giocando su cliché narrativi e mescolanza di generi, con dialoghi frizzanti e un messaggio ecologista mai banale, ma il paragone con lo Studo Ghibli (tra l’altro anche il logo dello Studio Ponoc ricalca il profilo del personaggio-simbolo del film, come una sorta di “nuovo Totoro“) è inevitabile e non può essere altrimenti se non si cercano strade ancora non battute dall’animazione precedente.
Un’opera “esordiente” nel solco della tradizione, ma si aspetta la seconda prova per stabilire se ne valga veramente la pena.
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