Cupo, lento, alterato e realizzato in modo asincrono e, per certi versi, atemporale. È difficile valutare il secondo film della britannica Lynne Ramsey in quanto atipico e volutamente imperfetto. Tratto da un romanzo breve di Jonathan Ames e uscito in Italia con il titolo “Non sei mai stato qui” (ed. Baldini & Castoldi), A Beautiful Day ha partecipato alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Cannes, vincendo come Miglior Sceneggiatura e Miglior Interpretazione Maschile (Joachim Phoenix).
Joe è un ex marine e agente FBI, in continua lotta contro i demoni del proprio violento passato. Un giorno viene assoldato per liberare la figlia di un noto politico newyorchese, rapita da un’organizzazione criminale che si occupa di prostituzione. Intento a liberare Nina, Joe scopre che dietro al suo rapimento si celano uomini molto influenti e corrotti.
Pochi dialoghi e molte scene riflessive ed ansiose. La storia non viene snocciolata in modo fluido e il racconto viene ridotto all’osso e si concentra totalmente sul protagonista, vero mattatore della pellicola. Un film apatico in quanto costruito su scene riflessive e “nervose”. Da un momento all’altro ci si aspetta un’esplosione rabbia violenta. Si gioca sulla tensione e su un crescendo, che alla fine non arriva mai. Ma è una cosa voluta e che, per certi versi, dà la sensazione di incompletezza. La violenza c’è ma non riguarda tanto l’aspetto fisico; il sangue scorre ma è perlopiù uno shock psicologico, traumatico. La linearità della storia viene sovente interrotta da repentini frammenti di flashback del violento e sconvolgente passato di Joe e da un countdown in voice over di Nina che conta alla rovescia. Una litania che crea uno stato d’ansia in quanto rappresentazione del tempo che scorre e che per la giovane è vitale.
Camera fissa con una fotografia grigia, cupa e poco illuminata. Anche le scene di giorno vengono ingrigite e sottoesposte. I movimenti della macchina da presa sono centellinati e spesso sono zoom lenti verso dettagli con una musica che rafforza un determinato snodo del film. Borbottii e ripetitività nella diegesi di elementi transitori che rafforzano lo stato d’ansia malato e “oltre ogni limite” del protagonista. Un corpo malato senza più niente da vivere, privo di gioie e di colori che vive ogni giorno la routine disturbata e grigia. Un racconto psicologico narrato attraverso privazioni e per sottrazione. Il carico non viene fornito da dialoghi o da movimenti di camera ma in A Beautiful Day gioca un ruolo importante il montaggio e una scelta registica ben precisa. Infatti, come stile è marcatamente autoriale. Essenziale e “Invisibile”. Primi piani misurati e utilizzati solo per momenti di grande emotività e alternati con ampie inquadrature totali.
Il film si regge in toto sulle spalle del bravissimo Phoenix che fornendo poca espressività, rafforza il personaggio. Assoluto protagonista della pellicola è grazie a lui se il film si rivela vincente.
A Beautiful Day è un film sperimentale, inconsueto e atipico. Pieno di elementi studiati e rappresentati per sottrazione, mostra una storia violenta che sotto il profilo della diegesi è volutamente incompleta. La regista non fornisce mai la temporalità e la storia non prosegue in maniera lineare e fluida. Tuttavia i punti salienti, e importanti, vengono fatti emergere attraverso elementi extra-diegetici (la litania – voice over – e musica) e con flashback e visioni. Difficile da seguire se ci si distrae per un momento, il lungometraggio richiede più visioni per apprezzarne la complessa costruzione narrativa che, pur incompleta, si mantiene idonea a raccontare lo stato d’animo del protagonista. Una pellicola difficile, complicata da metabolizzare e mai banale. Grazie alla bravura nella messinscena e al suo protagonista, A Beautiful Day può essere considerato un prodotto anticonvenzionale piacevole.
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